CULTURA

Il tramonto dei re del palco e il teatro come talent show

Cosa significa, oggi, essere un regista o attore shakespeariano, ed esserlo in Italia? Mettere in scena il Bardo ormai è diventata, per molti aspetti, una sfida. Economica, anzitutto: un allestimento shakespeariano con qualche ambizione richiede denaro. Ricco il cast perché affollato, e complesso da selezionare. Tale è il valore di ogni battuta, che spesso anche i ruoli minori diventano patrimonio collettivo: nella sua pièce più famosa, Rosencrantz e Guildenstern sono morti, Tom Stoppard trasforma una frase dell’Amleto nel titolo della sua commedia, garantendo ai due personaggi citati in quel verso lapidario una fama quasi maggiore di quella dovuta al testo originale. Se un servitore o un boia mal recitati sono, in generale, una stonatura, in una messinscena di Shakespeare sono una patacca di unto su un doppiopetto.

Accanto ai problemi di budget c’è, quindi, una questione attoriale. Senza sembrare prigionieri della nostalgia, dobbiamo prendere atto che oggi gli attori all’altezza di sostenere ruoli principali shakespeariani sono sempre meno. Basta guardare l’evoluzione della principale rassegna italiana dedicata al grande di Stratford, che ogni anno si tiene al Teatro Romano di Verona: dal dopoguerra ad oggi il festival ha dovuto mutar pelle, aprendo a molteplici generi e autori. Certo, è cambiato molto il pubblico, che oggi scalpita di fronte ad allestimenti che difficilmente durano meno di un paio d’ore, e non si prestano a una a visione veloce, frammentata e on demand da piattaforma streaming; ma sono cambiati soprattutto gli artisti. Senza una solidissima base teatrale è difficile recitare in Macbeth o Il mercante di Venezia senza apparire esili ed evanescenti, dei telegenici videonanetti assurti alla popolarità con un ruolo in una serie tv o in un reality. Assistere a uno Shakespeare con un insieme di attori convincenti e una regia all’altezza è, quindi, un regalo prezioso.

La tendenza dei teatri, per sopravvivere a Netflix, è di televisivizzarsi e piattaformizzarsi sempre più. E fanno riflettere le parole di Giampiero Beltotto, presidente del Teatro Stabile del Veneto appena promosso dal Ministero della Cultura nel novero dei Teatri Nazionali, i più prestigiosi del Paese: i volti noti televisivi (e, aggiungiamo noi, dello streaming) garantiscono il successo di una messinscena. Questo significa che interpreti di grande talento, ma che percorrano una carriera teatrale senza la grande popolarità offerta dagli schermi, sono destinati ad essere marginalizzati? E il futuro dei classici della drammaturgia è di essere alleggeriti, resi croccanti e lievi con sonori tagli e la presenza di mattatori provenienti, magari, da talent show? Stiamo estremizzando, ma i segnali di questa deriva del teatro per salvarsi dall’oblio sono già evidenti, e ci chiediamo se proprio non ci siano alternative a consegnare Beckett o Pinter a comici “impegnati” o belloni-bellone da soap.

Al Teatro Comunale di Thiene (Vicenza) è andata in scena l’ultima rappresentazione del Re Lear con Glauco Mauri, diretto da Andrea Baracco, produzione della compagnia Mauri-Sturno e del Teatro della Toscana: un allestimento inaugurato due anni e mezzo fa e seviziato, come tutti gli altri, dalle vicende pandemiche. Oggi Mauri ha 91 anni ed è uno degli ultimi superstiti della generazione che ha segnato il teatro italiano del dopoguerra. Di personaggi shakespeariani ne ha incarnati tanti, e questo è il suo terzo Lear. Appartiene alla categoria degli “anticamaleonti”, gli attori che rimangono se stessi, unici nel timbro, nel portamento, nei toni, quale che sia l’autore e il testo che interpretano: come Gassman (Vittorio), come Carlo Cecchi. L’allestimento non è memorabile. Gioca su una cupezza, più che evocata, esibita macroscopicamente, con la scena articolata su due piani, a tinte nere, viola e blu, con un’enorme scritta “King Lear” che si illumina a tratti, una colossale corona che incombe dall’alto, un elevatore che permette il rapido passaggio, anche metaforico, dal piano della sovranità a quello delle miserie umane. E il ritmo, la recitazione impressi al cast sono nevrotici, fulminei, senza pause e respiro; così come non sorprendono gli effetti sonori (echi sinistri, palpiti tetri, arcate gravi) o visivi (le sagome dei corvi in carosello che accompagnano l’ira di Lear). Molte sublimità, spesso contenute in un singolo verso o una riflessione sussurrata, si perdono nell’esigenza di mozzare il fiato, prediligere l’azione sul pensiero, rendere dominanti crudeltà e dolore, come se un testo della complessità di Lear non fosse la summa delle infinite pulsioni dell’animo, spesso laceranti e contraddittorie.

Eppure, malgrado tutto, abbiamo di fronte un cast di attori veri, seri, completi: e non solo i protagonisti. Se i decenni di esperienza di Mauri gli consentono di apparire credibile come Lear (e non è poco) anche in un allestimento minore, non è da meno il Gloucester di Roberto Sturno, da sempre compagno di scene e alter ego di Mauri, con cui costituisce una storica coppia teatrale che completa con una recitazione naturalistica, agli antipodi dall’impostazione classica e personalissima del maestro. Come è notevole Dario Cantarelli, attore mai abbastanza lodato per la sua poliedricità, che dà vita a un Fool che spazia dallo strazio alla beffa non mancando mai un tono o una battuta. Ma, si diceva, è tutto il cast a funzionare, con una menzione particolare per Enzo Curcurù, capace (nella replica che abbiamo seguito) di sostenere una parte fondamentale come Edmund leggendo il copione sul palco (il titolare aveva dato forfait) senza che il pubblico percepisse alcuna disarmonia.

Così, quando Roberto Sturno chiude l’ultima replica dopo due anni e mezzo ringraziando il pubblico per il calore, viene da pensare: quanti Shakespeare potremo ancora gustare con attori che osino affrontare un Riccardo III o un Otello perché selezionati per merito, e non grazie a un sorriso da talent?

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