CULTURA

Il tramonto del sultano

A un secolo di distanza dalla sua morte, quasi nessuno a parole rimpiange l’Impero Ottomano. Per secoli, da ben prima della caduta di Costantinopoli nel 1453, è stato lo spauracchio dei Paesi europei e l’oppressore degli arabi (presente Lawrence d’Arabia?). Alla fine furono gli stessi turchi a farlo sparire, deponendo l’ultimo sultano Mehmet VI il 1° novembre 1922. Da allora però quell’ampio pezzo di mondo che una volta viveva in relativa tranquillità sotto il dominio della Sublime Porta stenta a trovare pace, mentre l’anniversario arriva in un momento in cui una nuova Turchia, ancora repubblicana ma forse non più laica, riscopre le sue ambizioni espansionistiche se non addirittura neoimperiali.

Per Giorgio Del Zanna, docente di storia contemporanea presso l’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, “tre sono i fattori decisivi da considerare per comprendere il crollo dell’Impero ottomano. Il primo è l’impetuoso processo di modernizzazione economica e sociale che investe l’Impero tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, legato anche alle dinamiche di un mondo che si sta globalizzando. Trasformazioni che alterano le strutture sociali tradizionali, in particolare il rapporto con la componente cristiana, che mediamente rappresenta il 20% della popolazione ma in alcune zone è addirittura maggioritaria”.

Il 1° novembre 1922 viene deposto l’ultimo sultano Mehmet VI. Morirà quattro anni più tardi in esilio a Sanremo

Nel 2013 Del Zanna ha pubblicato il volume La fine dell'impero ottomano (Il Mulino), in cui vengono raccontati gli eventi e i processi che portano alla fuga del sultano: dai tentativi di riforma alle spinte secessioniste dei movimenti nazionali, con un focus sulla crisi violenta della coabitazione islamo-cristiana. Nella sua analisi all’ascesa socioeconomica delle élites cristiane, in particolare greche e armene, si accompagna come motivo di crisi la sconfitta nelle guerre del 1912-13: “La definitiva perdita dei Balcani è un elemento fondamentale, perché questi con l’Anatolia rappresentano uno dei polmoni della civiltà ottomana, simboleggiata da Costantinopoli che è sospesa tra due continenti e due mari. La deislamizzazione dei territori perduti e il conseguente flusso di profughi impatta inoltre pesantemente sulle dinamiche sociali interne”.

C’è infine il terzo fattore della crisi: la crescente pressione internazionale sul Medio Oriente, spazio intermedio tra un’Europa e un’Asia che vedono crescere vertiginosamente i loro scambi. “Specialmente dopo l’apertura del canale di Suez, negli anni ‘60 dell’Ottocento, su quest’area insistono forze enormi – continua Del Zanna –. Si tratta della cosiddetta ‘questione d’oriente’, con l’Impero Russo che preme per superare gli stretti e raggiungere il Mediterraneo e Inghilterra e Francia che resistono tenendo in piedi il ‘grande malato d’Europa’”.

Questi tre processi in parte convergono e culminano con la prima guerra mondiale, che tra il Bosforo e i Dardanelli di fatto durerà fino al 1922 con la fine del conflitto greco-turco. Un periodo storico concitato in cui i nazionalisti al potere trovano un nuovo insospettabile alleato: “Nonostante la Russia sia il grande nemico storico, in una logica antiimperialista il nuovo regime bolscevico arriva a fornire armi e mezzi al movimento kemalista che difende l’Anatolia dalle mire di Grecia, Francia e Italia – spiega lo storico –. Del resto quello tra russi e turchi è sempre stato un rapporto complesso, non a caso definito da qualcuno di cooperazione competitiva. Due vicini perennemente in conflitto che però condividono anche interessi e spazi, a partire dal Mar Nero. Ancora oggi, finita guerra fredda, la Turchia di Erdoğan ha recuperato un ruolo mediano tra Russia e Occidente”.

Oggi sono 100 anni da quando la Turchia ha deposto almeno in apparenza le ambizioni imperiali per cercare di trovare una sua dimensione nazionale – anzi nazionalista – guardando più ad occidente che ad oriente. Da allora però il vuoto geopolitico lasciato dal sultano non è stato più del tutto colmato nelle aree un tempo soggette al suo dominio. “Si tratta di Paesi per lo più segnati da una stratificazione culturale e religiosa che l’Impero Ottomano in qualche modo ha gestito per secoli, ma che oggi hanno difficoltà a costruire un’identità in cui tutti possano riconoscersi. Società attraversate da forti linee di faglia identitarie, che negli ultimi anni si sono anche allargate ancora di più. Pensiamo al Libano, all’Iraq o alla Siria, con Aleppo dove convivono oltre 15 comunità etnico-religiose differenti, ma anche ai Balcani, al Caucaso e persino al Maghreb, diviso da secoli tra arabi e berberi. Terre che non hanno ancora trovato un loro equilibrio in una dimensione nazionale di stampo occidentale, il quale però si è rivelato disfunzionale nella modalità e con le caratteristiche con cui era stato pensato all’indomani della prima guerra mondiale”.

Questo non significa, secondo Del Zanna, magnificare il vecchio dominio ottomano né auspicare un ritorno ai millet, ovvero a un sistema di governo incentrato sull’ampia autonomia delle comunità religiose ma inevitabilmente anche sulle discriminazioni in base alle appartenenze: “Occorre piuttosto pensare criticamente a un nuovo modello, magari ricreando uno spazio sovranazionale che tenga insieme le diversità, un po’ come l'Unione Europea – conclude Del Zanna –. Bisogna però tener conto anche delle comunità, che ad esempio in Medio Oriente contano molto più del singolo individuo”. Andare oltre l’idea otto-novecentesca di Stato insomma, allo scopo di evitare un pluralismo irrisolto che oggi rischia di trasmettersi all’occidente: “Anche in Europa, dove le nostre società sono diventate multiculturali, oggi ci confrontiamo con questo nodo che società come quella ottomana avevano già conosciuto in passato. Un dato che forse spiega anche l’attuale interesse che oggi abbiamo per gli imperi, la loro storia e la loro evoluzione”.

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