La scienza moderna, sosteneva lo storico delle idee Paolo Rossi, nasce nel XVII secolo abbattendo il paradigma della segretezza. Tutto deve essere comunicato a tutti. Tutti i risultati della ricerca devono essere open access: accessibili a chiunque. Di più, tutte le informazioni scientifiche comunque raccolte devono essere condivise da tutti con tutti: open data.
Lo ricordava, qualche anno fa, la Royal Society di Londra – una delle più antiche accademie scientifiche del mondo, quella che pubblicando le Philosophical Transactions ha inventato nel XVII secolo il moderno sistema di comunicazione della scienza – pubblicando il rapporto Science as an open enterprise. Open data for open science, redatto da un vasto gruppo di lavoro diretto da Geoffrey Boulton, professore emerito di geologia dell’Università di Edimburgo.
Il rapporto faceva implicito riferimento a un valore fondante dell’impresa scientifica: quello indicato, come abbiamo detto, da Paolo Rossi, che prevede l’abbattimento del «paradigma della segretezza». Comunicare, appunto, tutto a tutti. Un valore, quello di far conoscere tutto a tutti, che il sociologo Robert Merton ha definito “comunitarismo” e che ha almeno due grandi virtù. La prima è quella di trascinarsi dietro un altro valore fondante della scienza, quello, per dirla ancora con Merton, dello “scetticismo sistematico”, che grazie alla totale trasparenza della comunicazione scientifica consente a tutti di essere critici di tutti e di impedire a chiunque di ergersi ad autorità ermetica e assoluta. La seconda virtù consiste nella condivisione della conoscenza. Che è in sé un fattore di sviluppo. Perché la conoscenza è un bene molto particolare – un bene “più che non rivale”, come rileva il sociologo Andrea Cerroni – che aumenta tanto più velocemente quanto più è condiviso. Il mancato accesso alla conoscenza è invece un fattore di esclusione, sia nella comunità scientifica (il ricercatore che ha un accesso limitato alla conoscenza gioca con le mani legate) sia nella società nel suo complesso.
Tutto questo vale anche e soprattutto nei casi di emergenza, come l’epidemia da Covid-19 che stiamo vivendo. Occorre comunicare tutto a tutti perché la conoscenza condivisa accelera potenzialmente la soluzione die problemi, ovvero il contrasto alla malattia. Ma occorre comunicare tutto a tutti anche perché non solo gli scienziati ma anche noi, cittadini non esperti, possiamo percepire che tutto avviene nella massima trasparenza. Che nulla ci viene nascosto. Comunicare tutto a tutti è una formidabile iniezione di fiducia.
Oggi pubblichiamo un documento della Commissione Covid-19 dell’Accademia dei Lincei, i cui membri sono tra i più autorevoli esperti italiani di biomedicina.
L’Accademia dei Lincei fondata nel 1603 da Federico Cesi insieme a tre suoi amici (Giovanni Heckius, Francesco Stelluti e Anastasio de Filiis) è la più antica accademia scientifica italiana, che ha accolto tra le sue fila anche Galileo Galilei. E non a caso ripropone i valori di “scienza aperta” che sono costitutivi della scienza moderna.
Ebbene, il documento proposto dalla Commissione Covid-19 dell’Accademia dei Lincei a quei valori si richiama: trasparenza e condivisione assoluta delle conoscenze. Il motivo, secondo la Commissione, è che non tutti i dati su Covid-19 in possesso dell’Istituto superiore di Sanità (ISS) e della Protezione civile sono disponibili a tutti gli scienziati e a tutti i cittadini.
Siamo convinti che non c’è alcun intento censorio, da parte di queste due istituzione pubbliche. Tuttavia anche loro devo abbattere il “paradigma della segretezza” e considerare un valore aggiunto e insopprimibile quello di “comunicare tutto a tutti”. Ne va, come dicono gli illustri accademici, del governo efficiente dell’epidemia e, anche, della democrazia.