Quanta CO2 si può davvero immagazzinare nel sottosuolo?

“Dal nostro punto di vista è una tecnologia importante in alcune applicazioni e contesti, ma negli ultimi 20 anni quella del CCUS è stata una storia di delusioni. Dire che consentirebbe all’Oil & Gas di continuare con il trend di produzione attuale abbassando le emissioni è per noi pura fantasia”.
Queste parole venivano pronunciate a novembre 2023, alla vigilia della Cop 28 di Dubai sul clima, da Fatih Birol, direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA). La tecnologia a cui faceva riferimento è quella che l’industria dei combustibili fossili vorrebbe utilizzare per catturare e stoccare l’anidride carbonica prodotta dalla combustione degli idrocarburi o quella già presente in atmosfera. CCUS, o più semplicemente CCS, sta per Carbon Capture, Utilization and Storage.
Negli ultimi anni molti rapporti hanno provato a disegnare la roadmap per raggiungere la neutralità climatica entro metà secolo: uno dei più importanti è proprio quella della IEA. La maggior parte di questi mostra che la riduzione della produzione di nuove emissioni sarà essenziale (dovremo quindi bruciare sempre meno petrolio, gas e carbone), ma da sola non basterà. Le emissioni di alcuni settori dell’industria pesante sono “difficili da abbattere” (hard to abate) e una certa quota delle loro emissioni di CO2 non arriverà mai a zero: per arrivare a pareggiare il conto, sarà imprescindibile rimuovere una certa quota di anidride carbonica dall’atmosfera.
Oltre a farlo con metodi (per così dire) naturali, quindi facendola assorbire dagli alberi delle foreste e dal suolo (incluso quello agricolo), il mondo dell’industria spinge per farlo anche tramite soluzioni tecnologiche, costruendo impianti che catturano la CO2 e la immagazzinano nel sottosuolo. Anche l’Unione Europea sta discutendo in questi mesi di come mettere in piedi un mercato di scambio e utilizzo dell’anidride carbonica assorbita con questi sistemi. Ma quanta CO2 si può davvero immagazzinare nel sottosuolo?
Un numero più piccolo del previsto
Un nuovo studio su Nature lo ha calcolato e ha trovato un numero di poco inferiore a 1.500 miliardi di tonnellate (GtCO2), circa 30 volte le emissioni che produciamo ogni anno. Sembra tanto, ma in realtà è un numero circa 10 volte più piccolo rispetto a quello precedentemente stimato.
Gli autori dello studio, coordinato da Joeri Rojelj dell’International Institute for Applied Systems Analysis di Laxenburg, in Austria, riportano che le stime dell’industria finora si aggiravano intorno a una possibile capacità di immagazzinamento del pianeta di circa 14,000 GtCO2. Di queste però, 13.400 miliardi di tonnellate erano ancora da scoprire e solo circa 250 milioni di tonnellate (MtCO2), quindi una piccolissima frazione, erano considerate sfruttabili economicamente.
I ricercatori menzionano che alcuni scenari che mirano a mantenere la temperatura del pianeta entro 1,5°C di riscaldamento, come prevederebbe l’accordo di Parigi, prevedono di arrivare ad assorbire 8,7 GtCO2 all’anno entro metà secolo: questo numero però è 175 volte più grande di quanta CO2 siamo in grado di assorbire oggi. “Nonostante la sua prominenza nel discorso pubblico e scientifico, l’attuale utilizzo di sistemi di CCS è piccolo, con una capacità operativa di 49 MtCO2 catturate ogni anno e con 416 MtCO2 o pianificate o in costruzione” scrivono i ricercatori, citando i dati dell’ultimo rapporto Global Status of CCS 2024.
Nature research paper: A prudent planetary limit for geologic carbon storage go.nature.com/4p6MvOQ
[image or embed]— Nature (@nature.com) 4 settembre 2025 alle ore 10:13
Nella maggior parte degli impianti annunciati, l’immagazzinamento di carbonio avviene in formazioni di rocce sedimentarie, la stessa tipologia di depositi su cui si è concentrato lo studio.
A volte i depositi sono siti di estrazione di combustibili fossili quasi esausti, ma non del tutto: l’anidride carbonica pompata dentro serve allora ad aumentare la pressione nei giacimenti per estrarre le ultime risorse presenti. Si parla in questo caso di enhanced oil recovery: gli idrocarburi così estratti verranno poi venduti e bruciati, rendendo il bilancio dell’impatto climatico dell’operazione tutt’altro che sostenibile.
Anche senza estrarre nuovo gas e petrolio, le attività di stoccaggio sono comunque energivore e dunque producono emissioni. In linea teorica comunque è possibile pompare l’anidride carbonica nel sottosuolo e lasciarla lì: ad oggi però non vi sono garanzie sul fatto che nel tempo non vi siano piccole perdite che, magari nel giro di un secolo o anche di più, facciano tornare la CO2 in atmosfera.
Un esempio di impianto in costruzione è quello di Eni e Snam a largo di Ravenna, mentre uno già operativo sulla terraferma è quello sull’isola islandese della società CarbFix, che cattura anidride carbonica dall’atmosfera e dalla vicina centrale geotermica e la inietta negli strati porosi delle rocce basaltiche del sottosuolo. La tecnologia dell’impianto è però ancora in fase di sviluppo e dal 2014, da quando è entrato in funzione, ha stoccato meno di 1 MtCO2.
Livelli di esclusione
Proprio perché quasi tutti gli scenari di riduzione delle emissioni prevedono il ricorso al CCS e dato che l’industria presenta questi sistemi come il deus ex machina del problema climatico, i ricercatori hanno voluto vederci chiaro sulle effettive possibilità di immagazzinamento dell’anidride carbonica. L’analisi è partita dalle stime già disponibili e ha applicato una serie di livelli di esclusione per ottenere una mappa e una quantificazione dei depositi realmente sfruttabili.
Un primo livello di esclusione è dato dai siti attivi sismicamente: la pressione della CO2 iniettata può provocare sismicità indotta e terremoti di bassa intensità. Inoltre, la riattivazione della falda potrebbe compromettere la stabilità dello stoccaggio, generando possibili vie d’uscita per la CO2.
Oltre a tornare in atmosfera e far perdere il vantaggio climatico, l’anidride carbonica potrebbe finire in falde acquifere sotterranee, alterandone l’acidità: questo potrebbe causare effetti secondari come il rilascio di metalli pesanti e l’inquinamento della falda.
Per ragioni analoghe, i ricercatori hanno escluso aree troppo a ridosso degli insediamenti urbani (entro i 25 km). Hanno inoltre limitato i siti a profondità minime di 1 km e massime di 2,5 km, per garantire che il deposito sia sigillato in modo adeguato. Hanno poi escluso giacimenti marini più profondi di 300 m, di difficile gestione ingegneristica ed economica. Sono rimaste fuori dal computo anche le aree protette, l’Artico e l’Antartide.
Inoltre, così come per tutti gli impianti energetici, dalle centrali nucleari alle rinnovabili, anche gli impianti di stoccaggio dell’anidride carbonica devono fare i conti con l’accettabilità sociale della popolazione, difficile da quantificare a priori.
Una distribuzione iniqua delle capacità di immagazzinamento
Applicando tutta questa serie di livelli di esclusione i ricercatori hanno trovato che la quantità di CO2 che può realisticamente venire immagazzinata nei depositi disponibili è di 1.460 GtCO2, il 70% su terraferma e il 30% a largo delle coste.
Paesi come Russia, Stati Uniti, Cina, Australia, ma anche Arabia Saudita e Kazakhistan risultano tra quelli che dispongono delle maggiori capacità di stoccaggio. In questo gruppo ci sono anche il Brasile, l’Indonesia e Paesi dell’Africa come la Repubblica Democratica del Congo, che storicamente hanno contribuito in piccola parte alla produzione di emissioni responsabili del riscaldamento globale. Secondo gli autori avrebbero quindi deboli incentivi a sfruttare i loro depositi, a meno che non venga costruito un efficiente meccanismo di mercato che crei valore associato a questi depositi e permetta di scambiarlo.
Altri invece come India, Canada, Norvegia e in generale i Paesi dell’Unione Europea, in seguito a questa nuova analisi, vedono la propria disponibilità di immagazzinamento ridotta di molto rispetto alle stime precedenti. Questo secondo i ricercatori ha profonde implicazioni per le future strategie di mitigazione.
Se davvero dobbiamo utilizzare il CCS per raggiungere la neutralità climatica, sembrano suggerire gli autori dello studio, facciamolo bene: inseriamo nei piani nazionali (le Nationally Determined Contributions – NDCs – che periodicamente bisogna consegnare alle Nazioni Unite) quantità precise di CO2 che ciascuna nazione pianifica di assorbire e stoccare. Per determinare questi numeri occorre avere ben presente quali sono le reali capacità di deposito, che lo studio ora quantifica in modo realistico.
I ricercatori ottengono anche un altro dato significativo. Se si assume, come fa l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), che per ogni 1.000 GtCO2 immesse in atmosfera la temperatura del pianeta aumenta di 0,45°C, anche se nel tempo riusciremo a riempire tutti i depositi disponibili rimuovendo dall’atmosfera 1.460 GtCO2, avremo in ogni caso ridotto la temperatura del pianeta di solo 0,7°C, assumendo che le operazioni di immagazzinamento non producano nuove emissioni (e come abbiamo visto non sempre, o meglio quasi mai, è questo il caso). Oggi il mondo naviga sulla traiettoria emissiva che conduce a un aumento di quasi 3°C della temperatura del pianeta. Anche saturando tutti i depositi disponibili non riusciremmo comunque a restare sotto la soglia critica dei 2°C.
In conclusione, il messaggio principale dello studio di Nature è che lo stoccaggio dell’anidride carbonica non va trattato come fosse una risorsa infinita, come è stato fatto finora dall’industria dei combustibili fossili. In questo senso, i ricercatori sembrano far risuonare un concetto già espresso chiaramente da Fatih Birol due anni fa. “È impossibile continuare a usare il petrolio e il gas che produciamo adesso con il CCS, i numeri non funzionano. Vogliamo sottolinearlo perché non dobbiamo dare false speranze: il CCS non deve essere una scusa per continuare a fare quello che è stato fatto finora. Ridurre le emissioni dei combustibili fossili significa ridurre l’uso dei combustibili fossili”.