SOCIETÀ

La variegata galassia dei camionisti no-vax allarga il fronte di protesta

Ne sta facendo di strada il Freedom Convoy, il “convoglio delle libertà” nato ai primi di gennaio in Canada come forma di ribellione alle disposizioni decise dal governo di Justin Trudeau per contenere la diffusione della pandemia da Covid 19. Nello specifico, l’imposizione dell’obbligo vaccinale per i camionisti che dagli Stati Uniti entravano in Canada. Ma di giorno in giorno, le proteste sono aumentate, come i blocchi stradali, le barricate di camion trasformati in carri allegorici, e di veicoli in generale, che continuano a paralizzare ancora oggi la capitale, Ottawa, e i principali ponti di frontiera con gli Usa, compreso l’Ambassador Bridge, il ponte sospeso che collega Windsor (Ontario) a Detroit (Michigan): il valico di frontiera più trafficato del Nord America, un collegamento che il New York Times definisce “vitale” per l’industria automobilistica (Ford, Toyota e Honda sono state costrette a sospendere parte della produzione nei loro stabilimenti canadesi). Ma mentre in Canada la situazione è sostanzialmente in stallo prolungato (e perciò ancor più preoccupante), la protesta sta dilagando altrove: dagli Stati Uniti (dove un convoglio “coast to coast”, stando ai messaggi pubblicati sui social, potrebbe partire da Sacramento, in California, per terminare a Washington DC) all’Australia (alta tensione a Canberra), alla Nuova Zelanda. Ma anche in Europa: l’ultimo allarme arriva da Bruxelles: per lunedì prossimo, giorno di San Valentino, è annunciata una gigantesca affluenza di manifestanti, e di camion, provenienti dai 27 paesi membri dell’Unione Europea. L’obiettivo dichiarato è paralizzare la capitale belga.

Allarme a Parigi: la polizia vieta i convogli

Una protesta nata con l’esplicita patente “no-vax”, ma che ormai si sta trasformando in altro, in un movimento globale catalizzatore di un mix di malcontenti, dai più svariati attivisti antigovernativi (comprese le frange più intransigenti alle restrizioni sanitarie) alle formazioni di estrema destra, sempre in cerca di un pretesto purchessia pur di trovare un palcoscenico dal quale gridare i propri slogan. Come se i “gilet gialli” francesi fossero saliti a bordo dei camion canadesi. Non è un caso che la prima azione concreta di contrasto arrivi proprio da Parigi, che evidentemente non ha dimenticato le difficoltà nell’arginare quel movimento di protesta così variegato: ieri il Prefetto di polizia della capitale francese, con un comunicato, ha annunciato che sarà vietato qualsiasi “convoglio” di veicoli (non soltanto camion), anche se di semplice disturbo. Chi rallenterà il traffico sarà punito con 4500 euro di multa e fino a due anni di carcere, oltre al sequestro del mezzo e la sospensione della patente. Gli organizzatori delle manifestazioni rischiano 6 mesi di reclusione e 7500 euro di multa. L’ordinanza sarà in vigore fino a tutto il 14 febbraio. E tutte le autostrade che portano a Parigi saranno pattugliate dalla polizia. Movimenti “sospetti” di mezzi pesanti in direzione della capitale sono stati comunque segnalati da Nizza, Bordeaux, Bayonne, Perpignan, Digione, Strasburgo e Troyes. Il “piano”, a quanto sembra, sarebbe quello di bloccare la capitale sabato, 12 febbraio, per poi dirigersi tutti insieme verso Bruxelles. Il principale gruppo Facebook dei manifestanti francesi, Convoi de la Liberté, è arrivato a contare 320mila follower in pochi giorni (con esplicite connessioni con i gilets jaunes). Stessa pianificazione anche nei Paesi Bassi, con cortei annunciati ad Amsterdam, sempre per sabato. Una grande manifestazione si è già svolta a Helsinki, in Finlandia, con i manifestanti che oltre a pretendere la fine di tutte le restrizioni legate al coronavirus, hanno chiesto le dimissioni del governo e un taglio ai prezzi del carburante. Organizzazioni attive, quantomeno sui social, si segnalano anche in Italia, in Spagna, in Germania e in Ungheria.

Alle spalle del Freedom Convoy, che nel frattempo s’è trasformato in World Freedom Convoy, c’è sicuramente una capillare pianificazione, che utilizza i canali Telegram o Signal per comunicare e organizza raccolte fondi attraverso vari crowdfunding, sia in contanti sia in bitcoin (circa 8 milioni di dollari sono stati raccolti da donazioni sulla piattaforma americana Gofundme, che ha poi bloccato la raccolta il 4 febbraio). Ma c’è anche un’enorme adesione spontanea non soltanto di camionisti, ma di persone provenienti da variegate galassie sociali. A Ottawa i camion sono stati addobbati con un mix di simboli e striscioni, dalla “maple leaf”, la tradizionale bandiera locale con la foglia d’acero, a slogan no vax e contro il premier canadese Justin Trudeau (che i manifestanti vorrebbero processare per “crimini di guerra”). Ma sono state viste anche immagini con emblemi nazisti, bandiere Confederate, simboli dei cospirazionisti di Qanon. A favore delle proteste si sono schierati anche politici repubblicani (l’ex presidente americano Donald Trump in testa), suprematisti bianchi e perfino leader religiosi (Franklin Graham, leader evangelico americano,  ha elogiato in un post su Facebook il Freedom Convoy: “Amo questi ragazzi: i camionisti canadesi in piedi per la libertà”). Gli organizzatori promettono: «Non ci fermeremo fin quando non saranno cancellate tutte le restrizioni legate alla pandemia». Ma tra loro c’è anche tanta gente comune, senza appartenenze dichiarate, magari spinte ai margini della società proprio dalle difficoltà economiche derivate dalla pandemia. «È importante per me venire qui a combattere per le mie libertà», ha dichiarato un camionista canadese alla Bbc. «Non voglio che mi venga detto cosa fare: fare iniezioni se non voglio un'iniezione, indossare una maschera se non voglio indossare una maschera».

Le principali associazioni dei trasportatori, sia le grandi società di logistica, hanno già preso le distanze dal movimento. E non soltanto perché scontano gli effetti pratici delle proteste (enormi ritardi nelle consegne), ma proprio perché la questione è ormai prettamente politica: strumento di pressione per far cadere governi (con il Covid a fare da schermo, da pretesto). Con il premier canadese Trudeau, finito nel mirino dei contestatori, costretto a ribadire, quasi a giustificare la portata delle restrizioni imposte: «Continueremo a seguire la scienza. E queste proteste devono finire». Il sito di National Public Radio, un'organizzazione no-profit che comprende oltre 900 stazioni radio statunitensi, riporta un’intervista al consigliere comunale di Ottawa, Matthew Luloff: «Siamo scesi in strada ad ascoltare le loro ragioni. La maggior parte di loro vogliono che il governo si dimetta. Vogliono parlare con il primo ministro e vogliono che il primo ministro lasci il suo incarico. Alcuni di loro invocano la violenza. Altri minacciano singoli politici. Abbiamo visto simboli di odio. Abbiamo visto distribuire volantini antisemiti. Tutto questo è scoraggiante».

La matrice dell’estrema destra

A certificare la matrice dell’estrema destra è Ciaran O’Connor, analista dell’Institute for Strategic Dialogue, un think tank con sede a Londra che studia il fenomeno dell’estremismo online (in particolar modo l’Anti-Lockdown Activity). Intervistato da Politico, O’Connor ha sostenuto che «le figure politiche e i creatori di contenuti di destra statunitensi hanno davvero dato alla protesta dei camionisti una spinta che lo ha reso globale. Le donazioni dall’estero sono una parte abbastanza comune di qualsiasi grande campagna di crowdfunding. Ma la scala in questo caso è senza precedenti». L’ISD ha rilevato che la gran parte delle donazioni proveniva da gruppi di destra statunitensi, inclusi quelli associati al Tea Party Movement. E che gruppi simili stanno agendo in maniera speculare in Australia e in Europa. Un’analogia sufficiente a sostenere il legame, non solo ideologico ma organizzativo, tra le proteste canadesi e i manifestanti europei.

Resta la preoccupazione per quel che potrebbe accadere nelle prossime ore, sia in Canada, sia in Europa. L’occupazione di Ottawa, con le vie di scorrimento bloccate da centinaia di camion e di bivacchi, con i manifestanti che scorrazzano in strada e nei centri commerciali senza mascherine minacciando chi le indossa, con i clackson dei Tir sparati a tutte le ore del giorno per disturbare i residenti (fino a 16 ore al giorno, al punto che un giudice della Corte superiore dell'Ontario ha dovuto esplicitamente vietarne l’uso), è la dimostrazione che bastano poche migliaia di manifestanti per tenere in scacco una città. Per “occuparla”, sia pure senza commettere atti di particolare violenza. E la polizia può far poco: qualche multa, l’arresto dei più esagitati, ma la rimozione dei camion (alcuni dei quali enormi, a 18 ruote) è operazione estremamente complessa, e soltanto nella capitale canadese ce ne sono circa cinquecento. A bordo di molti Tir, peraltro, sono stati segnalati anche bambini, il che rende sconsigliabili le azioni di forza. Ma una soluzione bisognerà pur trovarla, anche perché i riflessi sull’economia canadese e americana cominciano a farsi sentire (la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha detto che l’amministrazione sta «osservando la situazione molto da vicino»). Ma intanto i dimostranti hanno bloccato altri tre valichi di frontiera, in Michigan, North Dakota e Montana. L’ostinazione dei manifestanti canadesi fa presumere che più il movimento riuscirà ad assumere una dimensione globale, più sarà difficile chiudere questa pagina con una soluzione indolore. E nulla fa escludere che gli organizzatori stessi siano in cerca di un pretesto. Quando i convogli marceranno in direzione Bruxelles (o in qualunque altra direzione), prima o poi la polizia tenterà di fermarli: a quel punto potrebbe bastare una qualsiasi scintilla per far esplodere gli scontri.

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