SCIENZA E RICERCA

La caccia sostenibile di un popolo indigeno canadese

Circa mille anni fa, i primi pionieri del popolo Inuit dell’Alaska colonizzarono l’area del delta del fiume Mackenzie, all’estremo nord dei territori Nord-occidentali del Canada. Da allora, quella popolazione, stabilitasi lì in modo permanente e divenuta, nel tempo, la comunità indigena degli Inuvialuit, ha fondato la propria sopravvivenza sulle risorse di quella terra glaciale. Una delle risorse alimentari più importanti per gli Inuvialuit, che ancora oggi dipendono da essa per larga parte della propria dieta, è il beluga (Delphinapterus leucas), un cetaceo che vive nei mari artici di Russia, Alaska, Canada e Groenlandia.

Gli Inuvialuit hanno praticato in modo continuativo la caccia ai beluga sicuramente negli ultimi 700 anni. Secondo stime basate sui reperti zooarcheologici e sulle informazioni etnostoriografiche a disposizione, l’entità annuale di prelievo di questi animali si è mantenuta sempre piuttosto alta, nell’ordine delle centinaia di individui l’anno.

Comparando questi numeri con la biologia riproduttiva del beluga, che è piuttosto lenta (una femmina genera mediamente un piccolo ogni tre anni, la maturità sessuale si raggiunge intorno agli 8-13 anni, e un individuo può vivere fino a 50 anni), alcuni ricercatori si sono chiesti quanto la pratica venatoria portata avanti dagli Inuvialuit potesse aver influito negativamente sulla popolazione locale di beluga, che è una tra le più numerose al mondo (si stima sia composta da circa 40.000 individui).

Un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati dal Globe Institute dell’università di Copenhagen e dall’università di Toronto, ha dato una risposta a questa domanda in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica PNAS, dimostrando che la caccia ai beluga praticata dagli Inuvialuit da centinaia di anni non ha intaccato la diversità genetica e la sopravvivenza della popolazione naturale.

Una strategia di caccia tradizionale

Da circa settecento anni a questa parte, gli Inuvialuit che abitano nel delta del Mackenzie celebrano una grande battuta di caccia annuale che coincide con l’arrivo di vasti gruppi di beluga nell’area del Delta per la stagione riproduttiva, che coincide con lo scongelamento dei ghiacci nel periodo estivo. Sfruttando la natura altamente sociale dei beluga, che si muovono in ampi gruppi composti da migliaia di individui, gli Inuvialuit usano una tecnica di caccia specifica, messa a punto e tramandata lungo le generazioni: decine di uomini della comunità mettono a mare dei kayak e guidano i beluga verso le zone più basse e sabbiose del delta, dove l’arpionamento è più facile. In questo modo, ogni anno vengono uccise centinaia di individui, le cui carni consentono di sfamare e mantenere in vita la comunità locale per l’intero anno: è stato calcolato che grazie alla carne e al grasso di beluga il popolo Inuvialuit soddisfacesse, già in passato, circa i due terzi del proprio fabbisogno alimentare.

Per stimare l’entità dei prelievi e la loro eventuale variazione nel corso del tempo e per analizzare l’impatto della caccia sui beluga, i ricercatori hanno esaminato le ossa di beluga presenti in alcuni siti archeologici e appartenenti a tre diversi periodi storici (1290-1440; 1450-1650; 1800-1870 d.C.). In seguito, hanno analizzato resti di esemplari provenienti da recenti stagioni di caccia, e le hanno comparate con i reperti storici.

I parametri su cui gli studiosi si sono concentrati sono tre: appurare se i modelli di caccia fossero legati alla preferenza per il sesso maschile o femminile dell’animale cacciato, e se la pratica si sia modificata nel tempo; valutare la diversità e la continuità della popolazione dei beluga attraverso la varietà e la struttura genetica; analizzare la relazione spaziotemporale dei beluga del delta del Mackenzie con le popolazioni circostanti.

La sostenibilità a lungo termine della caccia al beluga

Un risultato interessante emerso dall’analisi dei genomi dei reperti mostra la variazione della proporzione tra prede maschili e femminili tra i vari periodi temporali considerati (compreso il presente). È possibile spiegare questo dato ipotizzando che, nel corso delle stagioni, gli Inuvialuit abbiano adattato le loro pratiche venatorie in risposta alle fluttuazioni della popolazione dei beluga, alla modificazione del loro comportamento o a cambiamenti dell’ambiente locale, che potrebbero aver influito sulla struttura della popolazione dei cetacei. Oggi, ad esempio, i cacciatori prediligono in modo quasi esclusivo prede maschili (mentre nel periodo tra il 1450 e il 1650 la proporzione tra maschi e femmine cacciate era pressoché paritaria): questa pratica – spiegano i ricercatori – «potrebbe giocare un ruolo positivo nella conservazione della popolazione di beluga, dato che minimizza l’effetto della caccia sui tassi riproduttivi delle femmine e sulla sopravvivenza dei cuccioli, che probabilmente morirebbero se le loro madri fossero uccise durante le battute di caccia».

I tassi di diversità genetica della popolazione di beluga del delta del Mackenzie, calcolati per i 45 reperti storici analizzati, sono risultati omogenei nel corso del tempo, così come non è emerso alcun indizio di differenziazione in sottopopolazioni, suggerendo che gli individui storici e odierni analizzati fanno parte di un’unica popolazione mantenutasi unitaria nel tempo. Questa continuità è confermata anche dallo studio del DNA mitocondriale: è noto che, a livello globale, i beluga sono caratterizzati da alti tassi di diversità nel genoma mitocondriale, e nel caso della popolazione del delta del Mackenzie non è stato individuato alcun aplotipo condiviso né con le popolazioni contigue, né con altri gruppi di beluga.

La buona “salute” della popolazione dal punto di vista della diversità genetica sembra dunque non essere stata minimamente intaccata dalle pratiche venatorie, pur prolungate nel tempo e, a prima vista, piuttosto impattanti, degli Inuvialuit. Se si confronta la salute di questa specie con quella di altri cetacei che, invece, tra il 19° e il 20° secolo sono stati vittime di attività di pesca intensiva, emerge con evidenza quanto quest’ultima pratica abbia avuto un impatto fortemente negativo sulla conservazione di specie quali la balena artica (Balaena mysticetus) e la balenottera comune (Balaenoptera physalus).

Le pratiche di caccia degli Inuvialuit, dunque, superano l’esame, dimostrandosi sostenibili nel lungo periodo e capaci di non arrecare danno alla specie naturale utilizzata come risorsa. «I nostri risultati – concludono i ricercatori – suggeriscono che l’impatto della caccia di sussistenza degli Inuvialuit, che costituiscono ancora un elemento chiave della comunità dal punto di vista sociale ed economico, è stato trascurabile nei 700 anni oggetto del nostro studio».

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