SCIENZA E RICERCA

Cosa possono “raccontarci” i delfini e come li studiamo

Chi è cresciuto guardando Flipper ricorda bene quella coda che schizza fuori dall’acqua, quei versi acuti, l’aria simpatica e curiosa di una creatura che capisce tutto prima degli umani.
Il delfino del film, però, è antropizzato da una sceneggiatura che strizza l’occhio allo spettatore, in particolare ai bambini, e non bisogna dimenticare che è un animale selvatico, un po’ come le pantere: sicuramente molte persone, da piccole, hanno sognato di adottare Baghera, ma nel mondo reale non si avvicinerebbero mai a un animale del genere se disgraziatamente lo dovessero incontrare per strada.

Dietro la finzione, però, come spesso accade, c’è un fondo di verità: i delfini sono particolarmente propensi alla comunicazione.

La donna che sussurrava ai delfini

Ma come comunicano i delfini tra di loro? Possono interagire anche con noi? Ci comprendono? A queste domande ha dedicato la vita Denise Herzing, biologa marina che da quarant’anni nuota con i delfini maculati dell’Atlantico al largo delle Bahamas: nel libro Is anyone listening? What animals are saying to each other and to us (University of Chicago Press, 2024), Herzing racconta una storia di dedizione assoluta che parte agli inizi negli anni Ottanta, quando capì che sei settimane con i delfini non sarebbero bastate a svelare il mistero dei loro vocalizzi, e arriva fino allo sviluppo di tecnologie per tentare un vero dialogo con loro. Nell’ambito del Wild Dolphin Project, Herzing ha contribuito allo sviluppo di dispositivi come CHAT, un’interfaccia a due vie pensata per tradurre e riprodurre suoni specifici usati dai delfini, e UDDAS, che permette di registrare suoni e video sott’acqua in sincrono, per osservare quali suoni corrispondono alle diverse azioni degli animali.


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Il libro è pieno di aneddoti, per esempio si racconta di quando Herzing cercò di “chiamare” un branco mimando con la testa i movimenti dei delfini, ma il cuore del testo è un altro: la convinzione che, con tempo e pazienza, potremmo davvero decifrare il loro linguaggio con precisione.

Le perplessità di Laela Sayigh su Nature

Alcune delle affermazioni che Herzing fa nel libro, però, hanno fatto alzare qualche sopracciglio nella comunità scientifica.
La recensione pubblicata su Nature dalla biologa marina Laela Sayigh, pur complessivamente positiva, mette in fila alcune delle perplessità più importanti. Ad esempio, Herzing parla di “regole, inclusa una grammatica, che sembrano molto importanti per i delfini” e di animali che imitano parole umane copiandone la durata e il ritmo. Queste idee suggestive, però, non sono supportate da dati pubblicati, né accompagnate da riferimenti solidi sull’attendibilità delle conclusioni. In particolare, Sayigh contesta una citazione poco corretta di uno studio che, secondo Herzing, proverebbe la capacità dei delfini di riferirsi a individui che non sono presenti. Se fosse vero, sarebbe un risultato enorme, perché implicherebbe una forma di comunicazione referenziale, cioè la possibilità di evocare con un suono qualcosa o qualcuno che non si trova lì, nel “qui e ora”. Un’abilità che, tra gli animali, è considerata molto rara e che è una delle capacità più complesse e avanzate associate al linguaggio.

L’esperienza a servizio della scienza: basta non confondere i piani

Guido Pietroluongo, cetologo del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione (BCA) dell'Università di Padova, spiega che, anche se non ci sono (ancora) studi scientifici su argomenti come questi, un’esperienza sul campo di 40 anni è preziosa: da un lato, riconosce che alcune delle ipotesi avanzate da Herzing sono ancora speculative; dall’altro, difende con forza il valore del suo lavoro: “Osservare per quarant’anni uno stesso gruppo di delfini – afferma – permette di cogliere sfumature e ricorrenze che supportano in maniera peculiare i metodi standardizzati. Chi lo fa ha un tipo di conoscenza che non è sostituibile, ha visto individui nascere, crescere, morire, ha costruito un legame. Questo tipo di conoscenza va ascoltato, non come prova scientifica, ma come spunto: le intuizioni personali sono alla base della scienza, e possono offrire piste da cui possono partire nuove ricerche. L’esperienza sul campo può portare a scoperte brillanti, ma solo la verifica sistematica può trasformarle in conoscenza condivisa: se questa distinzione non è chiara, si rischia di creare confusione tra pubblico e media”. Insomma, è proprio unendo rigore e intuizione che può nascere una nuova conoscenza.


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Per quanto riguarda le perplessità di Sayigh, Pietroluongo conferma che nella comunicazione dei delfini si possono trovare strutture ricorrenti, ma che parlare di grammatica nel senso umano del termine è prematuro. Herzing ha anche scritto che i delfini imitano le parole umane copiandone la durata, ma non esiste ancora un articolo scientifico che lo dimostri. Pietroluongo fa notare che gli animali, non solo i delfini, possono imitare un suono, ma non è detto che lo comprendano, quindi l’imitazione acustica non è per forza una competenza linguistica.

Cosa sappiamo della comunicazione dei delfini

Gli studi confermano l’uso di un repertorio acustico articolato che comprende click, fischi modulati e suoni a impulso, usati per orientarsi, socializzare, cacciare. Gli studi più recenti mostrano sequenze strutturate che potrebbero corrispondere a informazioni complesse: alcuni pattern sembrano essere ricorrenti a prescindere dall’area geografica. “Il loro significato – spiega Pietroluongo – è ancora oscuro: non sappiamo se esista una sintassi come la intendiamo noi. C’è poi la questione della prosodia: negli animali si parla di accenti, enfasi, variazioni ritmiche. Per esempio, gruppi di capodogli nel Mediterraneo hanno ritmi diversi nei click, a seconda del gruppo sociale a cui appartengono”. 

Il contesto ambientale, sociale e culturale influenza profondamente le modalità comunicative: i delfini che vivono vicino alle coste venete, abituati da generazioni a interagire con i pescherecci, mostrano modalità diverse rispetto a quelli che vivono in aree oceaniche. Un caso emblematico, citato da Pietroluongo, riguarda un gruppo di delfini in Turchia che vive nei pressi di un porto particolarmente rumoroso: qui, per continuare a comunicare tra loro, gli animali hanno adattato il proprio comportamento vocale, alzando il volume dei vocalizzi, un po’ come se urlassero per non farsi sovrastare dai rumori antropici.

È stato osservato anche che in alcune specie, come i tursiopi, ogni individuo possiede un “fischio firma”, una sorta di nome sonoro che lo identifica e che può essere usato dai conspecifici per chiamarlo.

Come si “ascoltano” i delfini?

Ma in pratica come fa chi studia la comunicazione dei cetacei a rilevare i suoni che emettono e ad analizzarli? Sulla terraferma abbiamo i registratori, ma tendono ad andare poco d’accordo con l’acqua.
“Si usano – dice Pietroluongo – dei microfoni subacquei chiamati idrofoni, strumenti pensati per registrare in acqua. La qualità e la sensibilità dell’idrofono determinano quanto lontano può captare il suono: si può arrivare anche a centinaia di metri. Esistono anche array di idrofoni: sono come dei tubi in cui vengono disposti più microfoni. Questi array vengono installati sulla poppa delle imbarcazioni e poi navigano all’interno di areali specifici, cioè habitat particolari, e registrano suoni in modo continuo, 24 ore su 24.
Le registrazioni possono essere ascoltate in real time, cioè in diretta, e analizzate successivamente con determinati software per caratterizzare il suono specifico del delfino, eliminando tutto il rumore ambientale di fondo, che può disturbare sia l’ascolto che la codifica dei segnali”. 

I suoni vengono poi trasformati in audiogrammi, cioè raffigurazioni grafiche dell’audio, letti da software che ne analizzano frequenza, ampiezza, potenza. Attraverso queste registrazioni e la loro codifica con audiogrammi e software dedicati, si cerca quindi di capire se ci sono modelli ricorrenti. L’audio da solo però non basta, serve il contesto. Dopo anni di raccolta dati, audiogrammi e analisi, ora ci si sta concentrando su un’altra domanda: perché emettono questi suoni?

Come si studia il contesto

Se si registrano due delfini che vocalizzano senza sapere dove sono, cosa stanno facendo, chi sono, si rischia di non capire nulla, “come se origliassi una conversazione tra estranei”, chiarisce Pietroluongo. Per questo oggi la bioacustica lavora a stretto contatto con altre tecnologie: droni e videocamere subacquee, che completano l’osservazione etologica diretta e l’ascolto tramite microfoni. Solo mettendo insieme immagini e suoni si può cominciare a comprendere perché un animale produce un certo segnale

“L’idrofono – spiega Pietroluongo – ci dà una prospettiva acustica, ma dall’alto, con il drone, possiamo vedere meglio i movimenti e i comportamenti. Magari noi vediamo un delfino che semplicemente emerge e si immerge, ma grazie all’idrofono e alle immagini dall’alto scopriamo che, sott’acqua, sta compiendo varie interazioni sociali, oppure sta cercando di evitare una fonte di rumore come un’imbarcazione veloce, che genera un forte inquinamento acustico”.
Il progresso tecnologico, quindi, sta offrendo nuove prospettive per comprendere come la comunicazione dei delfini sia in relazione con l’ambiente circostante.

Le tecnologie come l’AI aiutano, ma non bastano. “L’intelligenza artificiale – spiega Pietroluongo – va usata con prudenza: può analizzare enormi moli di dati, trovare pattern nascosti, ma, almeno per ora, non può interpretare da sola il significato biologico dei suoni. Servono ancora competenze etologiche, conoscenza dei contesti e l’intuito maturato sul campo. Non credo che un livello di esperienza come quello di Herzing sia facilmente sostituibile”.

Come si riconosce un delfino?

Lavori come quello di Herzing sono importanti perché ha potuto seguire per anni lo stesso gruppo di delfini. Ma come funziona? Come si distingue un delfino dall’altro? Come fai a sapere che stai cercando di comunicare con lo stesso esemplare del giorno precedente e non con un suo compagno?
“In ambiente controllato – racconta Pietroluongo – conosci nome e “cognome” di ogni delfino, hai un piccolo gruppo che segui da anni, riesci a studiarlo in maniera assidua e costante, e a raccogliere i dati che ti aiutano a confermare alcune ipotesi”.

In ambiente selvatico invece le cose si complicano, alcune specie hanno specifiche parti anatomiche, come la pinna dorsale o la coda con marcature e forma uniche, una specie di impronta digitale attraverso la quale vengono identificati tramite fotografie, e quindi gli esemplari si possono riconoscere se li si incontra in un momento successivo.

Un aneddoto personale

Il libro di Herzing racconta anche esperienze personali, in particolare relative all’intuizione che i delfini cercassero proprio di comunicare con lei. A Pietroluongo è successo qualcosa di simile, in un incontro che è diventato il primo passo di una carriera scientifica: da ragazzo andava in vacanza in una località del Golfo di Manfredonia, e lì ha avuto la fortuna di incontrare un delfino solitario che è rimasto nella zona per dieci anni. Quel delfino, ci racconta, riconosceva il rumore di certe imbarcazioni, cioè quelle delle persone che frequentavano abitualmente il posto e che si comportavano in modo amichevole, e le seguiva per interagire con loro. “Quando uscivo col mio piccolo gommone – ricorda – e me ne andavo tranquillo per i fatti miei, lui si sganciava dal gruppo di barche turistiche e mi seguiva. Era un animale solitario, sì, ma pur sempre un animale sociale: aveva interesse e curiosità verso le persone, anche se non tutte si comportavano in modo corretto. Così selezionava: lasciava quelli invadenti e si aggregava alle imbarcazioni note, quelle di chi sapeva si comportava in modo rispettoso”.


Perché, per quanto ci affascinino, i delfini restano animali selvatici. Sociali, intelligenti, capaci forse di “dirci” il loro nome (o meglio, quello dei loro compagni) ma sempre appartenenti a un altro mondo, con regole e linguaggi propri. Un colpo di pinna involontario, può essere pericoloso per noi, e il rumore delle barche molto fastidioso per loro. La giusta distanza, quindi, è una forma di rispetto per loro e di tutela personale: si può godere della bellezza dei delfini senza tentare di accarezzarli come nel film Flipper.

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