CULTURA

Venere di Milo. La misteriosa donna di marmo tornava a vedere la luce 200 anni fa

Nostra signora di bellezza”. È questo l'appellativo che il poeta tedesco Heinrich Heine dedicò alla Venere di Milo, una delle più famose sculture dell'arte ellenistica. La celebre statua è considerata una delle rappresentazioni per eccellenza della bellezza femminile, e vede la sua storia e la sua identità ancora avvolte, in parte, nel mistero.

È sull'isola di Milo, nell'arcipelago delle Cicladi sud occidentali, che un contadino di nome Yorgos Kentrotas dissotterrò per caso la statua, mentre era intento a scavare nei pressi di un antico teatro. Quando si imbatté in questo busto di donna, che giaceva sotto terra separato dalla parte inferiore, ne rimase affascinato.

La scoperta avvenne l'8 aprile di 200 anni fa, nel 1820. Poco dopo, l'opera finì nelle mani dei militari turchi, ma un ufficiale della marina francese, Olivier Voutier, che si trovava lì per un'attività di ricognizione idrografica del Mar Egeo, si rese conto del suo valore e, grazie all'aiuto dell'ambasciatore francese presso gli Ottomani a Costantinopoli, riuscì a concluderne l'acquisto. L'ambasciatore in questione, il marchese de Rivière, la donò al re di Francia, Luigi XVIII, il quale ci teneva particolarmente a restituire al suo regno un'immagine di magnificenza e splendore artistico, valorizzandone la fama tramite l'acquisizione di opere antiche. A sua volta, quindi, il sovrano regalò la statua al Louvre l'anno seguente.

La Venere di Milo è stata collocata nel più famoso museo francese in modo tale da poter essere ammirata da tutte le possibili angolazioni. Per la sua composizione a spirale nello spazio tridimensionale, infatti, la statua si presta ad essere osservata da diverse prospettive.

L'opera è stata costruita a partire da due blocchi di marmo, ai quali sono fissate, grazie a dei sostegni verticali, delle parti che sono state scolpite separatamente, come il busto, le gambe, il piede e il braccio sinistro. Le fitte pieghe della veste che ricopre la parte inferiore del suo corpo hanno proprio la funzione di nascondere la giuntura tra i due blocchi di marmo. Questa donna misteriosa indossava anche degli orecchini, dei quali, purtroppo, restano solo i fori di fissaggio.

La statua è ancora avvolta nel mistero. I pezzi mancanti e l'assenza di simboli la rendono piuttosto difficile da identificare. Qual era il gesto delle braccia? È questo ciò che ci si chiede ormai da due secoli, ed è molto probabilmente la principale curiosità di chi ammira questa statua.
Sono stati molti, nella storia, i tentativi di immaginare quale fosse la posizione delle braccia. Se ne stava forse appoggiata a una colonna, come suggerisce la ricostruzione dell'archeologo tedesco Adolf Furtwängler? È stato ipotizzato anche che fosse appoggiata sulla spalla di Ares, o che tenesse in mano un oggetto. Ma quale?
Se infatti fosse stata ritrovata con in mano un arco, o un'anfora, avrebbe potuto essere riconosciuta, rispettivamente, come Artemide, la dea della caccia, o Danae, mitologica principessa di Argo.
In genere, però, si tende a pensare che la statua rappresenti Afrodite, dea dell'amore e della bellezza, la quale teneva in mano, per esempio, uno specchio.
Infatti, una certa somiglianza con la Venere di Milo la si può trovare nell'Afrodite di Capua di Lisippo, una statua più antica, risalente al IV secolo a.C, oggi conservata al museo archeologico nazionale di Napoli.

Tra coloro che vedono nella Venere di Milo la rappresentazione di Afrodite, per la sua figura sinuosa e la sensualità della sua posa, ci sono alcuni studiosi che la ricollegano al celebre episodio del giudizio di Paride, il mortale che le aveva consegnato una mela d'oro e l'aveva eletta la più bella tra le dee, ottenendo in cambio l'amore di Elena. Per questo motivo, perciò, alcuni critici hanno avanzato l'idea che in origine la statua potesse tenere in mano una mela, frutto che, tra l'altro, sembra aver ispirato il nome greco dell'isola di Milo (mélos). Altre ipotesi, inoltre, suggeriscono che la statua rappresentasse Anfitrite, la divinità marina di quell'isola.

Afrodite o meno, questa figura femminile senza braccia sembra intenta nel gesto spontaneo di unire le gambe per impedire che la veste le scivoli giù dalle anche. Il suo peso è interamente sulla gamba destra, leggermente in torsione verso l'esterno, mentre la linea delle spalle e del bacino è inclinata in direzione opposta e la gamba sinistra è piegata.
In quest'opera c'è un recupero e un rinnovamento dei modelli classici. Il corpo, morbido e delicato, descrive una curva sinuosa e aggraziata. C'è poi uno studiato equilibrio tra la levigazione delle parti nude e il fitto panneggio della metà inferiore, per cui l'insieme appare sobrio ed bilanciato.

Il volto della Venere, finemente modellato, è assolutamente impassibile. Può apparire pensierosa, serena, severa, o semplicemente riservata. La sua compostezza ricorda le statue tardo classiche e la posa del corpo richiama le figure di Prassitele, uno dei più grandi maestri di scultura della Grecia del IV secolo a.C.
Il nome dell'autore che realizzò la Venere di Milo è ancora immerso nel mistero, anche se la maggioranza degli studiosi tende ad attribuirla ad Alessandro di Antiochia, che potrebbe averla realizzata verso la fine del II secolo a.C., nel pieno del periodo dell'ellenismo.

Questa donna di marmo, che vanta ben 202 cm di altezza, ha ispirato molti grandi artisti. L'opera più celebre ispirata alla Venere di Milo è probabilmente La libertà che guida il popolo, dipinto di Delacroix. Ma anche Dalì ne propose una sua personale rivisitazione: la Venere di Milo con cassetti.

Da quando venne portata al Louvre, la Venere di Milo fu grandemente pubblicizzata e ammirata da tutto il mondo, universalmente considerata come una splendida espressione del fascino femminile, tranne che dal pittore Renoir, il quale la definì, poco cortesemente, “una grassa poliziotta”.

Da 200 anni, la Venere di Milo è una delle statue più famose del mondo, e ha ricevuto numerosi tributi non solo in altre opere d'arte ma anche in molti film e cartoni animati, come ad esempio in Hercules, il film disney che volle spiegare, finalmente, come aveva perso le braccia.

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