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41 bis: il caso Marcello Viola e la sentenza della Corte europea dei diritti umani

“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Questo è l’articolo numero 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, firmata dai membri del Consiglio d’Europa. È proprio su questo articolo che si è basata, nel giugno scorso, la Corte europea dei diritti umani per giudicare il caso concreto di Marcello Viola, in carcere da 28 anni.

“È inammissibile privare le persone della libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura”. Questa la motivazione con cui la Corte di Strasburgo ha di fatto bocciato il carcere ostativo, cioè la reclusione a vita senza possibilità di riabilitazione.

In questi giorni se ne sta parlando molto proprio perché la Cedu nell’ottobre scorso ha bocciato anche il ricorso presentato dall’Italia contro la precedente sentenza del 13 giugno scorso.

Il carcere ostativo: articolo 4 bis

Per capire di cosa stiamo parlando però è bene fare un passo indietro. È del 26 luglio 1975 infatti la legge numero 354 che sancisce le norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. L’articolo 4 bis è di fatto quello che introduce il carcere ostativo prevedendo che “l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, e le misure alternative alla detenzione (…) possono essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale (…) nonché per i delitti di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale, (…) e all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter.”

Il caso Viola e il 41 bis

La Corte europea dei diritti umani ha quindi stabilito che la legge italiana vìola il diritto del condannato a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Il tutto è partito da Marcello Viola, in carcere dal 1992 con una prima condanna per omicidio con aggravante mafiosa (sentenza divenuta definitiva nel 1999), ed una seconda in seguito al “processo Taurus”. Rinchiuso nel carcere di Sulmona, al momento del ricorso, Viola ha un curriculum criminale non indifferente. Fu coinvolto negli eventi che videro contrapporsi la cosca Radicena e la cosca Iatrinoli a partire dalla metà degli anni ‘80 e fino all’ottobre 1996, la cosiddetta “seconda faida di Taurianova”.

Lo scontro tra ‘ndrine avvenuto nel paese in provincia di Reggio Calabria, vide contrapporsi le famiglie dei Neri contro gli Avignone-Lombardo, i Giovinazzo-Zagari e, appunto, i Viola-Fazzalari. Ad averne la peggio furono proprio i primi, con l’uccisione di Rocco Neri il 2 luglio 1989, alla quale seguì l’omicidio per vendetta di Rocco Zagari il 2 maggio 1991 e la Strage del Venerdì nero di Taurianova. Per vendicare la morte di un componente Zigari, il giorno seguente all’omicidio, alle 12:30 ci fu la vendetta: diciannove colpi di lupara contro un ragazzo di 29 anni, Pasquale Sorrento.

Cinque ore dopo, davanti all’ufficio postale della città, è la volta dei fratelli Grimaldi: Giovanni e Giuseppe. Fu a quest’ultimo che venne riservata la sorte peggiore. I giornali dell’epoca infatti, ricostruendo l’omicidio, scrissero: “Il killer s'è abbassato su quel povero corpo e con colpi netti e precisi gli ha mozzato la testa e l'ha lanciata in aria dopo averla ruotata come una mazza tenendola per i capelli. La testa è andata su come una palla di pezza, un atroce giocattolo dello squadrone della morte. Un altro killer, con un gesto fulmineo, ha imbracciato il fucile ed ha mirato. Un colpo solo, nel silenzio terrorizzato di una ventina di persone inchiodate dalla paura. La testa, come investita da un vento Improvviso, è tornata In alto. Una parabola breve prima di ricadere un poco più in là”. 

La faida continuò fino a raggiungere, il 14 maggio 1991, anche il Veneto. A morire sotto i colpi dei killer questa volta fu Michele Messina, ventenne originario di Taurianova, che fu ucciso a Carmignano di Brenta dove abitava da sei mesi essendo stato mandato in soggiorno obbligato. In 10 giorni la faida provocò 8 vittime. Il boss, quindi il mandante della decapitazione, fu proprio Marcello Viola.

A suo carico quindi Viola ha una condanna a 15 anni di reclusione per i quattro omicidi avvenuti il 3 maggio 1991 (ridotta a 12 anni dalla corte d’assise d’appello di Reggio Calabria il 10 febbraio 1999, a cui Viola non fece ricorso per cassazione), un ergastolo del 22 settembre 1999 con sentenza n. 10/99 della corte d’assise di Palmi nell’ambito del “processo Taurus” per associazione per delinquere di stampo mafioso e altri reati (omicidio, rapimento e sequestro che ha causato la morte della vittima, e detenzione abusiva di armi da fuoco) aggravati dalle circostanze dette «di stampo mafioso».

Marcello Viola tra giugno 2000 e marzo 2006 fu sottoposto al regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41 bis (articolo che fu introdotto dalla legge Gozzini, che il 10 ottobre 1986 modificò la legge 26 luglio 1975). Fu proprio nel 2000 che il boss iniziò la sua battaglia legale, con l’obiettivo di farsi riconoscere riconoscere la cessazione dei contatti con la sua cosca di riferimento. Il primo ricorso di Viola fu accolto il 14 marzo 2006, quando il Tribunale di Sorveglianza pose fine al 41 bis. La battaglia legale però continuò, con numerose richieste di permesso premio ed anche un’istanza di liberazione condizionale, tutte richieste rigettate dai tribunali.

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo

Respinte fino ai giorni nostri, quando infine il ricorso di Marcello Viola contro l’Italia è stato accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo quest’ultima quindi l’articolo 4 bis contraddice ciò che c’è scritto nell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo intitolato “Proibizione della tortura”: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». La Corte quindi dice che “la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all’ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici” ma che “la scelta di non collaborare possa dipendere dal timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri congiunti: di conseguenza la mancanza di collaborazione non deriverebbe sempre da una scelta libera e volontaria di adesione ai valori criminali e di mantenimento di legami con l’organizzazione di appartenenza, come già affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 306/1993”.

Con questa sentenza però non significa che l’Italia deve procedere alla scarcerazione di Marcello Viola. Già un’altra volta inoltre l’Italia era stata condannata da Strasburgo per la decisione di rinnovare il regime di 41bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 fino al giorno della sua morte, avvenuta il 13 luglio.

Sicuramente però il tema sollevato nuovamente dalla Corte è al centro di un grande dibattito, anche alla luce del fatto che, come dichiarato anche dal presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, “si dovrebbe lavorare affinché la nostra legislazione antimafia venga recepita da altri ordinamenti nazionali in attesa di una normativa europea contro la mafia”.

La parola alla Corte Costituzionale

La costituzionalità dell’articolo 4 bis però non è stata sollevata solamente da Marcello Viola. La Corte Costituzionale infatti, il 23 ottobre scorso, si è espressa sul tema. La Corte ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”.

In pratica, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa, il che significa che può essere valutata caso per caso dal magistrato di sorveglianza, valutazione che “deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”.

I numeri

In Italia oggi ci sono 957 ergastolani per crimini di mafia, mentre sono 1.150 i collaboratori di giustizia e 4.592 i soggetti (compresi i familiari) sotto protezione. In un anno (2017-2018) 111 membri di associazioni mafiose e 7 testimoni hanno scelto di collaborare.

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