Il premio Nobel per la pace Leymah Gbowee durante la sua lectio nell'Aula magna di Palazzo Bo. Foto: Massimo Pistore
In occasione della prima Nobel Lecture del palinsesto di Universa dell’università di Padova, affidata a Leymah Gbowee, avvocato per i diritti delle donne in Africa e premio Nobel per la Pace nel 2011, pubblichiamo una sua intervista, realizzata da Science for peace-Fondazione Veronesi. Leyman Gbowee è ospite oggi nell'Aula Magna di Palazzo Bo.
Signora Gbowee, il suo nome è legato principalmente alla Women of Liberia Mass Action for Peace, che ha unito donne cristiane e musulmane in un movimento non violento che ha rivestito un ruolo fondamentale nel porre fine al conflitto civile in Liberia nel 2003. Quando ha deciso di impegnarsi attivamente a favore della pace?
La guerra in Liberia è iniziata quando avevo 17 anni. Per 12 anni della mia vita avevo assistito agli orrori della guerra e alla distruzione delle nostre comunità. Nel 1998 cominciai a lavorare con ex soldati bambini, uomini e donne giovani che si erano uniti alle diverse fazioni guerriere fin da piccoli, a partire dagli 8 anni. Durante la guerra molti di questi giovani erano stati feriti e soffrivano di diverse forme di disabilità fisica. Lavorando accanto a queste persone, provavo rabbia nei confronti dei promotori della guerra civile e mi domandavo spesso come avremmo potuto mettere fine alla carneficina. Nel 2000, la ripresa dei conflitti ha fatto precipitare nuovamente il paese in una situazione simile. Molti giovani sono stati rapiti per essere sfruttati come combattenti, altri sono stati uccisi, mentre molte donne di qualsiasi età hanno sofferto violenze sessuali e abusi. Mi resi conto che ci trovavamo in un ciclo di violenza che andava interrotto e che soltanto le donne e i gruppi femminili avrebbero potuto cambiare le cose. Inoltre in quel periodo feci un sogno, in cui mi veviva chiesto di radunare le donne per pregare a favore della pace. Questo è stato l’inizio del mio coinvolgimento attivo per mettere fine alla guerra in Liberia.
Quale eredità ha lasciato questa esperienza?
Prima del nostro coinvolgimento a favore della pace, molte donne non erano mai uscite dal recinto delle loro comunità né tanto meno erano state coinvolte in politica. Il fatto stesso di riunirci ha infranto gli stereotipi sulla partecipazione femminile nei processi politici. Questa per me è la prima eredità lasciata dal nostro impegno. Il secondo contributo della nostra iniziativa è la collaborazione tra donne cristiane e musulmane a favore della pace. Viviamo in un’epoca in cui la religione viene sfruttata come strumento di divisione; noi abbiamo dato vita a un movimento femminile usando la religione come strumento per la pace. Il terzo contributo di questa esperienza è l’approccio basato sulle comunità locali. Non ci siamo avvalsi di consulenti esterni o subito condizionamenti. Il processo di pace è stato portato avanti da donne locali, usando risore locali e conoscenze locali.
L’empowerment delle donne africane è al centro del suo impegno attuale. Rimangono tuttavia molte situazioni nel continente africano in cui le donne sono vittime di discriminazioni. Quali sono le priorità per il miglioramento della condizione femminile in Africa?
Me ne viene in mente più di una. A mio avviso, la priorità va data alla partecipazione equa e all'accesso paritario ai diritti. È fondamentale che le donne possano occupare ruoli di leadership a tutti i livelli. Questo farà sì che le problematiche femminili non vengano messe in secondo piano nei programmi di sviluppo globali, regionali, nazionali e locali. Un’altra priorità correlata alla precedente è l’inclusione delle donne nei processi di pace a tutti i livelli, nei luoghi e negli spazi coinvolti nei conflitti. È inoltre essenziale dare la precedenza all’istruzione di qualità per le ragazze giovani e all’accesso alle risorse economiche per le donne.
In Europa esistono molte preoccupazioni riguardanti l’immigrazione dai paesi africani. Secondo lei, come possiamo affrontare questo fenomeno in modo efficace e umano?
Innanzi tutto, la chiave per affrontare la crisi dei migranti è impegnarsi a mettere fine alle guerre che minacciano la regione. Senza la pace e senza sistemi democratici in varie parti del mondo, le persone continueranno a emigrare per sfuggire all’insicurezza. Senza la pace, continueremo ad assistere alle forme più svariate d’immigrazione. In secondo luogo, dobbiamo creare dei corridoi affinché i rifugiati possano fuggire in modo sicuro. Molti rifugiati scelgono le soluzioni più pericolose perché non hanno altre opzioni. È necessario progettare programmi per i rifugiati che offrano alle persone la possibilità di spostarsi da un luogo all’altro. Infine, quando un rifugiato arriva in un paese (indipendemente da come sia arrivato e dal fatto che abbia o meno i documenti giusti), dobbiamo riceverlo in modo dignitoso e umano. Ogni essere umano ha bisogno di un posto adeguato in cui dormire, di abiti caldi e di cibo.
La libertà di espressione è uno dei requisiti fondamentali di ogni democrazia. Oggi tuttavia c’è una preoccupazione crescente nei confronti delle “fake news” e della propaganda sulla qualità della democrazia stessa. Qual è il suo punto di vista in merito?
Sono fermamente convinta che se i governi e le democrazie proseguiranno nel privilegiare pochi eletti, le persone continueranno a usare mezzi disperati per alterare gli equilibri di potere. Finché la sicurezza delle persone (il diritto umano per eccellenza) non verrà affrontata in ogni processo democratico, la minaccia delle “fake news” e la loro influenza sui processi democratici continueranno a esistere.
Nel mondo vedo un gruppo di persone che cercano disperatamente un cambiamento, riguardante la loro situazione economica, il loro status sociale, il loro modo di vivere e mantenersi e un futuro migliore per le generazioni più giovani. Se riusciremo ad affrontare queste tematiche e garantire alle persone la possibilità di partecipare alla gestione delle loro comunità, forse la propaganda sarà meno efficace.
Nobel Lecture di Leymah Gbowee, 16 novembre 2017