UNIVERSITÀ E SCUOLA

L’università, collante culturale dell’Europa nascente

La fondazione dell’università di Padova nel 1222 è parte, importante, di un fermento intellettuale che investe le terre più occidentali dell’Eurasia tra l’XI e il XIII secolo. Un’effervescenza così intensa e di così grande valore da meritare la definizione di “primo Rinascimento”. È un fermento che ha tratti comuni in tutto il continente ed è, in definitiva, effetto e causa (uno dei principali effetti e una delle principali cause) della nascita dell’Europa.

La rete delle università che si viene costruendo dal Mediterraneo al Mare del Nord, dal Danubio al Tago dove si insegnano nella stessa lingua le stesse cose, con studenti e docenti che (più o meno) liberamente si muovono dall’una all’altra costituisce il “collante culturale” dell’Europa nascente. L’elemento che le conferisce un’identità.

Certo la ‘rivoluzione culturale’ non si esaurisce nelle università. Ma si verifica, non a caso, nelle città. E culmina, già nell’XI secolo, non solo nello sviluppo di nuove forme di espressione artistica (in primis, le straordinarie cattedrali), ma anche e soprattutto in una formidabile rivalutazione del valore dell’educazione di massa, che trova corpo e carne nella nascita di una costellazione di scuole ‘primarie e secondarie’ in quasi tutti i centri abitati abbastanza importanti da ospitare una sede vescovile. All’apice del sistema educativo ci sono le ‘scuole superiori’, ovvero le scuole legate alle cattedrali e comunque al vescovo, la cui fase di rapida riorganizzazione culmina nella costituzione della Universitas scholarum a Bologna (1088) e della Universitas magistrorum a Parigi (1180): le prime università dell’Occidente.

Certo, non sono quelle di Bologna e Parigi le prime scuole superiori d’Europa nate fuori dai conventi: prima di loro sono venute la Scuola giuridica di Pavia e soprattutto la Scuola medica di Salerno. Ma le università create a Bologna dalla corporazione degli studenti e, un secolo dopo, a Parigi dalla corporazione dei maestri e degli studenti rappresentano, appunto, il segno del grande cambiamento. L’espressione di un fenomeno culturale che, sebbene controllato e diretto dalla Chiesa, ha valenza generale, investe l’intera società europea, e che, nell’organizzazione degli studi, ha due grandi modalità di espressione, solo in apparenza in contraddizione: la progressiva eliminazione delle ‘scuole aperte’ nei monasteri e la nascita nelle città di nuovi centri di educazione.

È solo del 1134 lo statuto generale dei cistercensi che vieta in maniera formale l’ingresso a scopo educativo nei monasteri di giovani che non siano monaci o novizi e impone la chiusura delle scuole esistenti. Ma la sostanziale espulsione dei ‘non monaci’ dai conventi è ormai una prassi in atto da tempo. Favorita, ora più che mai, dalla Chiesa di Roma, nell’ambito di quel processo di riorganizzazione “razionale” e “centripeta” che va perseguendo in ogni campo.

Nei monasteri il processo di chiusura non assume le vesti solo del fenomeno sociale, ma anche di quello culturale. I monaci, infatti, tendono ad abbandonare progressivamente la filosofia scolastica – con il suo tentativo di raggiungere la verità attraverso la ragione – per ritornare alla filosofia patristica, alla lettura, appunto, che si riduce agli scritti dei Padri della Chiesa nella ricerca di una verità senza e contro i “saperi pagani”.

Ma fuori dalle mura dei monasteri la domanda di conoscenza e, dunque, di istruzione cresce irrefrenabile

Ma fuori dalle mura dei monasteri la domanda di conoscenza e, dunque, di istruzione cresce irrefrenabile. E non solo tra i chierici – ce ne sono molti erranti che vanno dispensandola di città in città, per tutta Europa –, ma nell’intera società. La cultura sta rapidamente diventando un valore diffuso. Istruire i propri figli è un obiettivo che attraversa tutti i ceti. Il sapere conferisce prestigio, tanto che, sostiene lo storico Robert Moore, “Poche generazioni di intellettuali europei sono state così affascinate dalla propria educazione, e poche così entusiaste nell’esporre i suoi trofei – le citazioni dei classici, le allusioni e i rimandi alle letture classiche e patristiche, di cui [straripa] la loro prosa”.

Poche generazioni di intellettuali europei sono state così affascinate dalla propria educazione, e poche così entusiaste nell’esporre i suoi trofei Robert Moore

È per placare questi entusiasmi, per soddisfare questa domanda e anche per regolare questa dispensa di saperi che, sempre diretto dalla Chiesa, il sistema di istruzione tende a urbanizzarsi. Le ‘scuole aperte’ a chierici e laici, cacciate dai monasteri, si riproducono in città – anzi, nelle città vescovili, come sviluppo delle ‘scuole cattedrali’ – con la loro (ormai) tipica impronta scolastica, ovvero con la contaminazione tra teologia, filosofia e arti liberali. Arricchita, per di più, dalla riscoperta di Aristotele che – tradotto dall’arabo e dal greco – sta ritornando e quasi prendendo possesso dell’Europa. Nascono, così, scuole di educazione divise, per così dire, in “primaria” e “secondaria”. Con un marcato carattere di massa: spesso sono frequentate dal 60%, e talvolta più, dei bambini e dei ragazzi maschi della città, talaltra, come a Reims, sono frequentate anche da bambine e ragazze.

E poi ci sono le “scuole superiori”, destinate a formare la nuova e articolata classe dirigente delle città: ecclesiastica, nobile e, sempre più, anche borghese. Sono organizzate dapprima intorno a singoli docenti famosi, i maestri, ma presto assumono un aspetto istituzionale: di Studium generale, di scuola, appunto.

I centri di istruzione superiore entrano a far parte in maniera organica del modo di essere della città europea.

E chi li frequenta si colloca nell’ambito della normale organizzazione dei mestieri urbani: nascono, così, le corporazioni sia dei docenti (i maestri) sia degli studenti.

Queste scuole, che producono tale fermento, sono controllate dall’autorità religiosa, ma sono socialmente aperte. Infatti, vi possono accedere tutti: aspiranti chierici e figli della nobiltà, ma anche figli di borghesi e persino di semplici lavoranti. E non solo in via teorica. Certo, la frequenza è piuttosto costosa, per cui c’è di fatto una selezione per censo. Si conoscono, tuttavia, non solo studenti, ma anche maestri figli di contadini. Per consentire l’accesso ai poveri ma meritevoli vengono create dapprima apposite fondazioni, finanziante da mecenati, e poi strutture istituzionali, come i collegi. A Parigi, per esempio, il Collegio di Sorbona ospita studenti di teologia. A Oxford, il Collegio di Merton ospita studenti di matematica.

Da un punto di vista culturale, le scuole sono nel medesimo tempo controllate e aperte. Sono, per esempio, aperte alle contaminazioni dei saperi che, come un fiume in piena, fluiscono dai mondi con cui l’Europa ha preso contatto: quello islamico e quello bizantino, in primo luogo. Sono aperte anche alle disputationes, frequenti nel mondo arabo e bizantino, cioè al confronto pubblico e argomentato di opinioni diverse sulle questioni filosofiche e teologiche di punta. Ne è una prova, sia pure fallita, quella chiesta a Parigi dal filosofo Pietro Abelardo (1079-1142) al monaco Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Il primo espressione di quel mondo scolastico urbano che va aprendosi al razionalismo aristotelico, il secondo del mondo dei monasteri che va chiudendosi in se stesso. Il pubblico confronto si sarebbe dovuto tenere il 3 giugno 1140, ma Bernardo declina l’invito. Quanto ad Abelardo, verrà condannato in contumacia dalla congrega vescovile. A dimostrazione che nell’Europa nascente c’è – e rimarrà per molto tempo – un’ipoteca religiosa sulla libertà di ricerca, filosofica e scientifica. Le università sono autogestite dalle corporazioni dei maestri e degli studenti, ma sono pur sempre legittimate e controllate dalla Chiesa.

In realtà, tutte le scuole urbane, comprese le università, sono vere e proprie istituzioni ecclesiastiche, organizzate, dirette e largamente finanziate dalla Chiesa. Sono ‘scuole cattedrali’. Le più grandi e famose sono fondate o rifondate dagli allievi di Gerberto d’Aurillac (divenuto, poi, papa Silvestro II), come Adalberone di Laon (947 ca. - 1030) o Fulberto di Chartres (960 ca. - 1028). A gestire l’università è, infatti, un rettore nominato dai maestri (ovvero dalla corporazione dei docenti), ma sorvegliato da un cancelliere, che in genere è nominato dal vescovo e supervisionato dal papa. D’altra parte, le stesse corporazioni degli studenti e dei maestri sono autorizzate dal papa e controllate dai vescovi. Le università sono istituzioni della Chiesa chiamate ad assolvere a una funzione precisa: di centro di formazione ideologica e di costruzione del consenso intorno alla visione tra sacerdotium e regnum che va opponendo in Europa il papa e l’imperatore. La Chiesa e lo Stato.

La scuola superiore di Bologna ne è un esempio. L’università inizia a configurarsi alla fine dell’XI secolo, quando maestri di grammatica, di retorica e di logica iniziano a interessarsi al diritto: sia quello civile, che fa riferimento al codice di Giustiniano, sia quello canonico, che regola i complessi rapporti all’interno della Chiesa e, in parte, tra la Chiesa e il mondo laico. Il diritto è proprio lo strumento che diversi pontefici romani intendono utilizzare nel processo di riorganizzazione razionale e centralistica della Chiesa. Bologna diventa, così, il luogo di attrazione per tutti coloro che, provenienti da ogni parte d’Europa, vogliono studiare, insegnare e contribuire a ordinare questo settore emergente e strategico che coinvolge ogni parte del continente.

La città si impone, quindi, come uno dei catalizzatori della nascita dell’Europa

La città si impone, quindi, come uno dei catalizzatori della nascita dell’Europa. I suoi esperti di diritto, infatti, iniziano a dare all’intero continente, come scrive ancora Robert Moore: «La capacità di creare un singolo corpo legislativo, promulgato e applicato tramite un assortimento uniforme di tribunali e procedure». Una prima sintesi di questo comune sentire giuridico si ha con la redazione, intorno al 1130, del Concordia discordantium canonum, noto come il Decretum Magistri Gratiani, in quanto opera di Graziano (1075/1080 - 1145/1147), considerato il padre del diritto canonico. A ragione: perché non solo il Concordia discordantium canonum mette ordine in mille anni di norme, regole, leggi, indicazioni prodotte da pontefici, concili, sinodi, dottori della Chiesa, vescovi e autorità ecclesiastiche varie; ma anche perché fornisce una plastica dimostrazione di come le regole della logica possano essere applicate al diritto, compreso il diritto canonico.

L’opera di Graziano, in realtà, inaugura una stagione e non la chiude. Viene, infatti, sistematizzata nel 1150 da un altro membro della comunità universitaria di Bologna, probabilmente un suo discepolo, alla luce di una conoscenza diretta del Codice di Giustiniano, che porta alla fusione del diritto civile romano con quello ecclesiastico nel Corpus iuris canonici, facendo, così “di Bologna il luogo in cui, tra il 1150 e il 1170, dei giovani ambiziosi e infervorati [trasferiscono] l’armamentario della tecnica e del sapere legale nei tribunali dell’Europa latina, mettendo a disposizione dei suoi governanti ecclesiastici e secolari una nuova e formidabile tecnologia di potere, e gettando le fondamenta di un’unica pratica e cultura giuridica, incurante della formale frammentazione della sovranità”, come ci ricorda ancora Robert Moore.

È grazie soprattutto all’università di Bologna, dunque, che l’Europa frammentata politicamente si trova ad avere un corpo giuridico unitario. Una nuova e comune “tecnologia del potere”. Una nuova e comune cultura del diritto. La facoltà di diritto dell’università di Bologna assume un tale prestigio e una tale influenza che i suoi dotti giuristi vengono spesso chiamati a partecipare in qualità di esperti ai negoziati tra papa e imperatore.

Ma, come vedremo, e come dimostrerà la nascita dello Studium a Padova, non c’è solo Bologna.

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