SOCIETÀ

Che ruolo hanno le Nazioni Unite nella gestione dell'emergenza climatica?

Se ripensiamo alla COP25, la conferenza ONU sul cambiamento climatico tenutasi a Madrid nell'autunno del 2019, il primo ricordo che ci torna alla mente è quello delle “aspettative deluse”. Alla conclusione dell'incontro, le misure politiche che gli stati avevano accettato di adottare erano assolutamente insufficienti per far fronte alla drammaticità del problema segnalato dagli scienziati.

A fine gennaio di quest'anno, il segretario generale dell'ONU António Guterres ha dato il via a un programma chiamato Decade of Action, per dare delle linee guida per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile contenuti nell'agenda ONU 2030 e nell'accordo di Parigi del 2015, per incentivare ancora una volta un'azione decisa a livello globale e locale.

Il prossimo summit sul clima, la COP26 si terrà in settembre nella città di Glasgow. Forse è presto per capire quali sono le aspettative a riguardo, ma non è presto per porci un'altra domanda: che influenza ha, concretamente, l'ONU nella lotta contro l'emergenza climatica? Quali sono i reali provvedimenti che le Nazioni Unite, nel pieno dei loro poteri come organismo sovranazionale, sono in grado di apportare?

Di questo abbiamo parlato con il professor Roberto De Vogli, del Centro di ateneo per i diritti umani “Antonio Papisca”.

Oggi l'Intergovernmental Panel on Climate Change gode di molto consenso da parte della WHO, dell'UNDP, e dell'IMF, i quali aderiscono non solo all'evidenza scientifica ma anche alle misure da adottare, nonostante ci sia ancora un negazionismo climatico molto diffuso, specialmente in alcuni paesi”, spiega il professor De Vogli.

Rispetto al passato, però, c'è stato un grande cambiamento, specialmente per quanto riguarda agenzie come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, che negli ultimi anni si sono trasformate molto, ma che dagli anni Settanta e Ottanta in poi avevano invitato o addirittura costretto i paesi ad adottare politiche economiche poco ecologiche che hanno avuto un impatto ambientale assolutamente negativo. Negli ultimi anni, specialmente dal 2008, hanno cominciato a ripensare i loro assunti, e le loro posizioni sono cambiate, tanto che la Banca mondiale adesso è diventata un'attivista climatica. Quindi, è importante notare che nonostante ora ci sia accordo e unione, un tempo non era così. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale erano relativamente separati da UNICEF e WHO, tanto che l'UNICEF, nel 1980, aveva perfino attaccato le loro politiche. Adesso, invece è molto diverso”.

Questo excursus storico ci fa capire quanto alla radice del problema climatico ci sia il problema economico, e ci porta a chiederci se ora le Nazioni unite siano effettivamente determinate a produrre un cambiamento significativo.

“Adesso sì, perché aderiscono al consenso scientifico e tendono a promuovere politiche di sostenibilità”, continua il professor De Vogli. “Hanno però un'autorità politica molto limitata sugli stati, infatti sono questi ultimi che finanziano le Nazioni unite e che hanno una grande autorità politica su di loro. Le Nazioni Unite tendono quindi a utilizzare un linguaggio molto cauto, e a promuovere posizioni politiche che possano avvantaggiare gli stati molto ricchi, come gli USA; tendono insomma a galvanizzare politiche per il clima ma senza irritare gli stati finanziatori. Per questo sono bersaglio di molte critiche. Le loro politiche sul clima sono positive, ma che le loro esortazioni siano efficaci nel convincere i governi, questo è un altro discorso".

Qual è, allora, il motivo della loro inefficacia?

“Il problema è da una parte economico, e dall'altra relativo al potere. Quella di ridurre le emissioni di CO2 per prevenire una catastrofe climatica è una necessità urgente e davvero epocale in questo momento. L'evidenza scientifica era già stata portata alla luce negli anni Settanta e Ottanta da quegli studiosi che avevano capito che il modo in cui viveva la società moderna, a causa della sovrappopolazione e della globalizzazione, non era sostenibile a lungo. Oggi ci sono politiche ambientali che hanno fatto molti passi avanti, soprattutto nei paesi ricchi, come quelle relative alla qualità dell'aria e dell'acqua; ma anche lo status economico è migliorato, e di conseguenza l'aspettativa di vita dei cittadini. Si è intensificato anche il senso di competizione materiale degli stati, nel senso che tutti i paesi del mondo ambiscono allo status economico di quelli più ricchi.

La quantità dei sussidi statali che vengono dati alle industrie dei combustibili fossili, come risulta da uno studio dell'IMF, è di 5.3 trilioni di dollari all'anno. Sono sussidi perversi perché promuovono il disastro climatico con i soldi dei contribuenti. Ecco quindi che sui governi per ora hanno molto più impatto le compagnie di combustibili fossili che l'ONU, altrimenti questi soldi verrebbero spesi nel rispetto del Global green new deal.

Insomma, le posizioni delle Nazioni unite sono chiare e virtuose, però dal punto di vista economico hanno davvero poca influenza. Le Nazioni unite sono troppo deboli sia dal punto di vista politico, sia nel loro attivismo nel proporre agli stati il modello di sviluppo alternativo necessario per prevenire il disastro climatico. Quindi ci troviamo in una specie di impasse in cui le Nazioni unite fanno il loro lavoro nel cercare di convincere i governi a cambiare le loro politiche, ma è un lavoro relativamente limitato e che in ogni caso non va a cambiare i rapporti che contano di più, ovvero quelli di forza e di potere.

Dopo la grande delusione alla fine della Cop25 dell'anno scorso, quali sono le aspettative riguardo al summit sul clima di quest'anno, che si terrà a Glasgow? Gli stati si impegneranno di più per rispettare gli accordi di Parigi?

“L'accordo di Parigi è stato di sicuro un passo in avanti, perché non era certo semplice riuscire a coinvolgere così tanti paesi nell'impegno a mantenere l'aumento di temperatura al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, che è la soglia dopo la quale il disastro diventa assolutamente irreversibile. Il fatto che così tanti stati abbiano deciso di firmare questo accordo è sicuramente un passo in avanti. Tuttavia, nonostante le firme, le azioni concrete dipendono sempre da quanto si sia in grado di cambiare le politiche economiche, perché sono quelle che fanno la differenza. Ci sono almeno una ventina di paesi che sono riusciti a realizzare il decoupling economico, cioè a far aumentare il PIL riducendo le emissioni di CO2 allo stesso tempo.

La grande delusione della Cop25 è stata la posizione degli Stati Uniti rispetto agli accordi di Parigi. Senza di loro ci sono davvero pochissime possibilità di raggiungere un accordo globale sul clima, proprio perché non sono solo una super potenza economica, ma anche politica. Per questo è difficile che a Glasgow si riesca a produrre un cambiamento significativo.

La gravità del problema è stata largamente spiegata dagli scienziati, ma la volontà delle classi politiche, anche se spesso c'è, non è abbastanza forte perché ci sia un'azione coesa. Ci sono paesi che inquinano molto i cui governi sono scettici sul clima, come Trump negli Stati Uniti, Bolsonaro in Brasile, il quale ha riattivato la campagna di deforestazione nonostante l'Amazzonia sia il polmone del mondo, e persino Boris Johnson in Inghilterra, il quale non è molto a favore di grandi cambiamenti economici per frenare il disastro. Questo succede di fronte a continue avvertenze da parte degli scienziati riguardo alla possibilità di raggiungere un risultato catastrofico ed esistenziale. Ci dovrebbero essere, insomma, una mobilitazione e un cambiamento epocale dell'economia a livello globale.

In che modo, allora, le Nazioni unite possono realmente incentivare questo cambiamento epocale?

“Le Nazioni unite fanno un lavoro di convincimento rivolto a tutti i paesi del mondo, dei quali, però, la maggior parte sono in via di sviluppo. I paesi ricchi e quelli in via di sviluppo hanno vissuto il clima in maniera totalmente diversa. Guardando la storia delle emissioni di co2, i paesi che hanno causato il cambiamento climatico sono quasi esclusivamente quelli più ricchi, mentre quelli che l'hanno subito sono Africa subsahariana, Asia e America latina.
Da una parte, quindi, ci sono paesi ricchi che non ratificano le proprie firme, mentre dall'altra i paesi in via di sviluppo che hanno problemi prioritari da risolvere come la povertà e la fame, e non possono adottare politiche sul cambiamento climatico che possano inficiare la loro possibilità di sviluppo del PIL.
Questo è ciò che è stato chiamato dagli esperti “un clima di ingiustizia”, perché non si sa come cooperare, viste le tante separazioni di interessi. In verità ci sono molte soluzioni, come aiutare tecnologicamente i paesi in via di sviluppo. Non mancano le proposte politiche, come le tassazioni globali sugli aerei, sul cambiamento dell'agricoltura, e gli investimenti nei trasporti pubblici. Si tratta però di proposte che rimangono relativamente deboli, perché le grosse industrie, specialmente quelle dei combustibili fossili, ovviamente non intendono sparire. Da una parte viene richiesto alle grandi compagnie di gas e carbone di non essere più loro stesse, e dall'altra viene chiesto all'economia dei paesi e delle aziende di continuare a crescere.
Questa competizione è la ragione che rende gli accordi delle Nazioni unite e le loro riunioni pie illusioni, proprio perché non viene analizzato il problema alla radice.

Grazie a un'analisi pubblicata nel 2017, è stato visto che ci sono 100 multinazionali che sono responsabili per il 71% delle emissioni di gas serra a livello globale. C'è quindi una grande disparità di potere e di possibilità di azione, a cui si aggiungono poi molte campagne per il negazionismo climatico largamente finanziate dalle industrie di combustibili fossili. Queste argomentano che se si adottassero le politiche richieste dalle Nazioni Unite, si otterrebbe una catastrofe economica. Tutto ciò non aiuta, perché si continua da una parte a diffondere il negazionismo climatico, e dall'altra a insistere affinché le misure drastiche di cui c'è bisogno non vengano adottate”.

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