Foto: Universal Pictures
Immaginatevi di essere un soldato qualsiasi, beatamente pisolante nella pausa tra un massacro e l’altro. Immaginatevi di essere bruscamente risvegliato da un sergente che strepita con quella voce da caserma che solo le caricature dei sergenti possono avere. Immaginatevi di incontrare il vostro generale nella penombra di un rifugio e di vedervi affidare una missione vitale per la salvezza di migliaia di uomini. Immaginatevi di essere riforniti di armi e ogni genere di attrezzo, di uscire dalla sicurezza relativa delle trincee nella terra di nessuno, di farvi strada in un deserto disseminato di segni di morte, trappole mortali e ratti grossi come puledri. Immaginatevi di incontrare, in questa discesa agli inferi, personaggi che farebbero la gioia di ogni studente che deve ripassare il sistema dei personaggi di Propp – antagonisti brutti e brutali, aiutanti più o meno volenterosi e amichevoli, una fanciulla che vi indica la strada e che volentieri dividerebbe con voi il proprio giaciglio – e, per soprammercato, di essere quasi investiti da un aereo guidato dal collega stordito del Barone Rosso.
Immaginatevi, infine, di perdere per strada il vostro compagno, che è anche il vostro miglior amico e più caro di un fratello, di passare attraverso il fuoco e la battaglia, di riemergere da un fiume scalando un mucchio di cadaveri per poi ritrovarvi in un boschetto bizzarramente ameno e placido dove volentieri potreste adagiarvi e dormire un sonno (eterno), ma invece preferite correre lungo una trincea candida come la neve mentre attorno a voi piovono proiettili. Ecco, se riuscite a immaginare tutto questo, probabilmente state rivivendo 1917 di Sam Mendes. Il che non significa che stiate capendo qualcosa della Grande Guerra.
In effetti, ci sono molti motivi per cui il superpubblicizzato ultimo lavoro del regista di American Beauty e Skyfall non è un buon film sul primo conflitto mondiale, anche se può risultare una spia utile per capire la sensibilità di oggi per la guerra. Non ha solo l’estetica del videogioco, come buona parte della critica ha rilevato immediatamente. È pensato come un videogioco. Prevedibile come solo un videogioco può esserlo: la missione (quest) passa attraverso una serie di livelli di difficoltà, ognuno più complesso e inverosimile dell’altro. E banale. E in quanto banale, ci insegna George Mosse, confortante. Non ci rivela nulla che anche il più distratto degli studenti di liceo non si sia sentito ripetere ad abundantiam: la guerra è brutta e sporca, il nemico spesso cattivo ma non è colpa sua (è vero che il primo tedesco che si incontra accoltella l’eroe-bravo-ragazzo-inglese che l’ha salvato, ma era terrorizzato e quindi, via, vittima anche lui), e la vita militare è dominata dalla dimensione dell’assurdo. “Oggi è andata così, domani mi ordineranno magari di attaccare all’alba…” sospira il colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) dopo aver ordinato di sospendere l’attacco. La missione ha avuto esito, l’eroe (almeno uno dei due) ce l’ha fatta. Ma non c’è una logica nella guerra moderna e se tu, spettatore ingenuo, pensavi che il sacrificio di due bravi ragazzi valesse almeno la salvezza di qualche vita, ricordati che il destino degli uomini è nelle mani di dei imperscrutabili e crudeli (anche se il generale Erinmore-Colin Firth, comandante con lo stile del nonno gentile, ci prova a dare un volto umano all’universo dei capi).
Nulla di sorprendente. La vulgata vittimista dominante nel cinema di guerra degli ultimi tre decenni è ancora il canone del racconto e l’abilità di Mendes sta, casomai, nel declinarla secondo le regole del videogame sparatutto in prima persona. Il regista strizza l’occhio agli adolescenti degli anni Duemila e, perché no?, nel suo indiscutibile successo di botteghino ci dice anche molto sull’unica rappresentazione della violenza possibile per la generazione dei millennials, anestetizzata dal politicamente corretto. Ci si può immedesimare nell’eroe, purché la vicenda sia sufficiente irreale, fantastica e, di tanto in tanto, grottesca. 1917 sta alla Grande guerra sul fronte occidentale come Battlefield 1 alla battaglia d’arresto sul Monte Grappa (e se non sapete cos’è Battlefield è probabile che non siate il pubblico a cui Mendes stava pensando). Anche se la ricostruzione dei dettagli (armi, uniformi, equipaggiamento, slang da trincea) è perlopiù impeccabile, le castronerie abbondano, e la vera sfida è capire quali siano frutto di semplice sciatteria nella sceneggiatura (baionette da mezzo metro innestate per muoversi nei cunicoli…?) e quali il prodotto di un ricorso al simbolismo sempre più esasperato man mano che ci si avvicina al finale. Mentre corriamo insieme al caporale Schofield per campi e cittadine in rovina, e sopravviviamo a tanti scontri da fare invidia ai nani de Lo Hobbit (scena del fiume), alla squadra di salvataggio di Saving Private Ryan e a una dozzina di James Bond messi insieme, non faremo fatica a riconoscere indizi che ci segnalano l’ingresso in un mondo sempre più onirico.
I paesaggi desolati che attraversa sono citazioni (non troppo originali) dei più celebri dipinti surrealisti di Paul Nash, uno dei fondatori dell’immaginario britannico sulla guerra. I diversi schermi della sua impresa lo mettono al confronto con il senso della morte (subita, del proprio fratello in armi, data, dei nemici) e della vita (il bambino che nutre con una borraccia di latte), mentre si spoglia progressivamente di ogni attributo guerriero (per essere un veterano del fronte perde fucile, elmetto e zaino con la facilità di una recluta). Quando esce da un fiume popolato di morti (lo Stige?) e si inoltra nel boschetto dove decine di altri soldati, assorti, ascoltano I am a poor Wayfaring StrangerI, si fa fatica a non pensare che il buon soldato “Schof” sia approdato ai Campi Elisi, ad Avalon o nel Walhalla: comunque sia, il meccanismo dell’iter dantesco è talmente spudorato che ci è voluta una buona dose di faccia tosta a sostenere che la costruzione della sequenza sia stata pensata per esaltare il realismo della situazione (così la sceneggiatrice, Kristy Wilson-Cairns, in un’intervista). Di reale, o anche solo lontanamente verosimile, negli acclamati venti minuti finali del film non è rimasto pressoché nulla: lo stesso trincerone da cui parte la prima ondata dell’assalto del 2° Devonshire, immacolato com’è, richiama la terra delle Fiandre quanto una palma da cocco.
J’Accuse (1919), estratto
Non è la prima volta che il cinema di guerra ricorre al surreale per enfatizzare i propri messaggi. Il precedente nobile è naturalmente J’Accuse di Gance (1919), con i suoi morti che risorgono sul campo di battaglia, e più vicino a noi Ritorneranno i prati di Olmi (2014), un altro regista che ha deciso di far cantare un soldato sotto il chiaro di luna in mezzo alla neve (d’altra parte in un film in cui il nemico non esiste fisicamente ogni licenza è ammessa). Nessuna di queste due pellicole aveva però la pretesa di essere un racconto verosimile sul 1914-18, e chiunque lo pensi non ne ha capito lo spirito. Mendes dissemina qua e là indizi sulla sua volontà di creare un racconto mitico, e non la cronaca più o meno gloriosa di un fatto d’arme. La fonte dichiarata è la materia della memoria (del nonno veterano del Fronte occidentale) e come tutte le testimonianze è uno sguardo parziale, rielaborato, infido: "incantato" l’ha definito Daniela Brogi, in una delle poche letture penetranti del registro fantastico del film. E quando il buon Schofield, infine, si addormenta adagiato a un albero con in mano l’immagine di moglie e figlia (“Torna da noi”), in un riferimento circolare alla sequenza di apertura del film, sarebbe più onesto ammettere che siamo piombati all’interno di un sogno, che Schofield forse è già morto durante il suo cammino. Ma la regola dell’onestà evidentemente non appartiene alla grammatica del cinema di massa, e le dichiarazioni di regista, sceneggiatori e produzione hanno finito per trasformare 1917 nel tentativo o – meglio – illusione di una testimonianza veritiera di ciò che la guerra è stata.
Emozionare non guasta, d’accordo. Ma non bisognerebbe farlo a scapito della verità.