SOCIETÀ

Nel 2020 sono stati uccisi 227 ambientalisti in tutto il mondo

Il 2020 è stato l’anno più triste per quanto riguarda gli omicidi di ambientalisti. Lo riporta il Global Witness report, che accende così un faro su una tematica che sarà sempre più al centro della nostra quotidianità. Quando si parla di attivisti per l’ambiente, o ambientalisti che dir si voglia, si parla di persone impegnate a difendere ciò che dovrebbe essere di tutti e per tutti, persone impegnate a contrapporsi allo sfruttamento della terra, alla massiccia attività mineraria o al disboscamento. 

Gli ambientalisti uccisi nel 2020 sono stati 15 in più rispetto al 2019, un dato che, visto nel suo totale rappresenta un aumento del 7% in solo 12 mesi. Nell’ultimo anno gli omicidi di attivisti sono stati 227, il 30% dei quali è stato collegato a battaglie contro lo sfruttamento delle risorse e il disboscamento, contro le dighe idroelettriche e altre infrastrutture, l'estrazione mineraria e l'agricoltura su larga scala.

Il dato del 2020 segna quindi un triste primato per gli omicidi degli ambientalisti. Lo stesso Global Witness però riporta come il numero sia probabilmente sottostimato e non riesca a cogliere nel pieno la reale portata della problematica. In alcuni stati è complesso recuperare i dati e raccogliere informazioni. Molti Paesi infatti sono colpiti dai più diversi conflitti e il monitoraggio dei tentativi di mettere a tacere gli ambientalisti non è cosa semplice da attuare. 

Il rapporto del Global Witness si apre con due pagine piene di nomi: sono le 227 vittime, gran parte delle quali uccise in Sud America. La Colombia detiene il triste primato di 65 omicidi di attivisti in un solo anno, seguita dal Messico con 30, dalle Filippine con 29 e dal Brasile con 20. 227 vittime significa una media di più di quattro persone uccise a settimana. A questo poi bisogna aggiungere anche il contesto di minacce, arresti o campagne diffamatorie nei confronti di chi protesta contro lo sfruttamento ambientale.

La Colombia, come abbiamo visto, è il Paese dove per il secondo anno di file sono stati uccisi più ambientalisti, 65, un terzo dei quali erano rappresentanti di popolazioni indigene. Proprio gli indigeni sembrano essere i più colpiti. Un terzo del totale degli omicidi infatti è stato perpetuato contro di loro nonostante essi costituiscano solo il 5% della popolazione mondiale. Anche in questo caso il triste primato va al Sud America, in cui la maggior parte di uccisioni di indigeni è avvenuta in Messico. Qui il Global Witness ha documentato almeno 30 omicidi contro ambientalisti, con un aumento del 67% rispetto al 2019. Le vittime nella maggior parte dei casi stavano protestando contro il disboscamento.

Preoccupante però è anche l’escalation di violenza avvenuta contro le popolazioni indigene nelle Filippine, dove il 30 dicembre scorso, precisamente nell’isola di Panay, nove Tumandok sono stati uccisi e altri 17 sono stati arrestati in raid dei militari e della polizia. In totale dall’inizio del mandato di Duterte, cioè dal maggio 2016, sono stati 166 gli ambientalisti uccisi nelle Filippine.

Fino al 95% degli omicidi non comporta alcun procedimento penale

Il documento si conclude con un’esortazione ai governi che tra poco si riuniranno nella Cop26 di Glasgow: implementare gli accordi di Parigi integrando la protezione dei diritti umani.

“Con l'intensificarsi della crisi climatica - si legge nel report -, aumenta anche il suo impatto sulle persone, compresi coloro i quali difendono l’ambiente ed il territorio. Un'azione significativa per il clima richiede anche la protezione degli ambientalisti e viceversa. Senza un cambiamento significativo, questa situazione potrebbe solo peggiorare: poiché più terra viene espropriata e più foreste vengono abbattute nell'interesse dei profitti a breve termine, più la crisi climatica e gli attacchi contro le persone continueranno a peggiorare”.

“I governi possono invertire le sorti della crisi climatica e proteggere i diritti umani - conclude il rapporto - proteggendo la società civile e approvando leggi che diano la responsabilità alle aziende per quanto riguarda le loro azioni. I legislatori hanno fatto troppo affidamento sull'autodichiarazione aziendale e sui meccanismi aziendali volontari. Di conseguenza, le aziende continuano a causare, contribuire e beneficiare di violazioni dei diritti umani e danni ambientali. Le Nazioni Unite devono riconoscere formalmente il diritto umano a un ambiente sicuro, sano e sostenibile, garantendo che gli impegni per rispettare l'Accordo di Parigi integrino le protezioni dei diritti umani”.

 

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