“Alla vista d’un incendio sì grande che sembrava un esemplare d’inferno occhio, non v’era chi non spargesse rivi di pianto, udendosi di quando in quando l’orrendo strepitio delle gran statue cadenti al suolo mezzo abbruciate, e mirandosi strisce di fuoco che avventandosi a’ luoghi anche remoti, vi apportavano rovina e desolazione”.
Così veniva descritta, in una delle diverse relazioni manoscritte dedicate all’evento, l’impressionante visione del gravissimo incendiò che colpì nella notte tra il 28 e 29 marzo 1749 la Basilica del Santo, 270 anni orsono. Allora il Santo, come poche settimane fa la cattedrale di Notre Dame di Parigi. Sono parole che cercano di descrivere lo sbigottimento, il dolore e il terrore suscitato da un evento devastante quanto inatteso. In definitiva sono gli stessi sentimenti che ognuno di noi ha provato difronte alle immagini trasmesse dai diversi sistemi di comunicazioni durante il tardo pomeriggio e la notte del 15 aprile scorso.
“ La tragedia che colpì il Santo ebbe cause banali: un lume o uno scaldino lasciato acceso nella zona del presbiterio
L’evento tragico recente consente di ricordare ora una vicenda che presenta forti analogie, non solo per il tipo d’incidente, ma anche per gli esiti: il gravissimo danno inferto a un edificio di grande valore, prima di tutto religioso poi artistico e culturale. E di come nel corso della storia dei secoli passati la convivenza col pericolo del fuoco ha sempre accompagnato la vita quotidiana delle città: ricorrenti, da questo punto di vista, sono le testimonianze raccolte nelle memorie, negli annali e nelle cronache delle città che documentano una minaccia ricorrente e contro la quale si cercava di predisporre difese efficaci. Ripropone altresì il tema, di cui si è già discusso ne Il Bo Live, della prevenzione e dei presidi di sicurezza volti alla protezione dei monumenti dagli eventuali rischi.
Come sovente accadeva in età d’antico regime, laddove l’uso delle fiamme vive era consueto, la tragedia che colpì il Santo ebbe cause banali: un lume o uno scaldino lasciato acceso nella zona del presbiterio finì per appiccare il fuoco ai rivestimenti lignei del deambulatorio, da cui passò agli stalli in legno del coro (opera quattrocentesca di grande valore per le tarsie di Cristoforo e Lorenzo Canozi da Lendinara) e di lì alle cantorie, agli organi, al baldacchino superiore, raggiungendo infine i tetti e le cupole. Esattamente come nel caso di Notre Dame, il sistema di copertura realizzato interamente con strutture lignee rivestite di piombo fu attaccato dalle fiamme e distrutto rapidamente. Quattro cupole vennero devastate: quelle del coro, del presbiterio, di San Felice e dell’Angelo; fu parzialmente demolito infine uno dei due campanili.
L'incendio della Basilica in un'incisione di Giorgio Fossati
Forte fu, naturalmente, l’impressione suscitata e molte, quindi, le testimonianze scritte sullo svolgimento dei fatti. I memoriali stesi per descrivere la tragica circostanza appaiono strutturati secondo schemi ricorrenti: si parte dalle concitate operazioni seguite alla scoperta dell’incendio, all’accorrere dei responsabili della basilica, dei frati, degli inservienti e della città tutta, svegliata dal suono delle campane a martello; si raccontano gli episodi d’eroismo, la lotta contro un nemico proteiforme che sembra propagarsi in modo insaziabile; si esprime l’ansia che colpisce tutti, anche le autorità pubbliche, di fronte a un rogo furioso, alimentato com’era da un forte vento; si narra l’orrore delle campane di bronzo liquefatte, la difficoltà di affrontare l’interno della Basilica invasa da fiamme e fumo per raggiungere le preziose reliquie del Santo e metterle in salvo, cosa che riuscirà quasi miracolosamente; sino allo spegnimento finale salutato come opera di coraggiosi ma anche “della mano divina che operava in nostro aiuto”.
L’emozione suscitata da tanta distruzione e il pericolo occorso fu oggetto anche di componimenti poetici pubblicati a stampa, come L’incendio del tempio di S. Antonio di Padova di padre Vincenzo Rota. Ma la vicenda è documentata non solo nei numerosi registri di atti conservati presso l’archivio della veneranda Arca di S. Antonio (relativi alla fase di analisi delle distruzioni e poi ai cantieri per la ricostruzione) ma anche da alcune immagini realizzate nell’immediatezza degli eventi. Proprio in questi giorni è aperta presso il Centro Studi Antoniani un’interessante mostra di immagini che illustrano la storia del Santo (Il Santo com’era. Rappresentazioni della Basilica attraverso i secoli, Museo Antoniano, 23 maggio-6 luglio) e tra le varie illustrazioni sono presenti alcune incisioni che mostrano l’evento drammatico e lo stato della chiesa al temine dei fatti.
Domato l’incendio, nei giorni successivi si approntarono le indagini per chiarire la genesi e le conseguenze del disastro. Già pochi giorni dopo i fatti Giovanni Poleni, docente di Fisica dell’università, grande studioso e autorità in campo architettonico, su incarico del provveditore veneziano della città Daniele Dolfin compì un accurato sopralluogo e stese una relazione che quantificava i danni e stimava l’ammontare dei costi per il restauro della Basilica: una cifra davvero enorme, quasi 64.000 ducati. I lavori iniziarono subito e durarono circa un decennio, sostenuti da elargizioni pubbliche e private. Con l’evento andarono perdute importanti testimonianze storico artistiche, soprattutto relative agli arredi interni come il coro, gli organi, parti di altari, statue.
Sul tema della prevenzione è interessante notare come proprio nei primi decenni del Settecento a Venezia, sempre attenta al pericolo del fuoco, era iniziata una discussione in merito ai nuovi sistemi antincendio provenienti dall’Inghilterra. Si trattava di macchine “per estinguere gli incendi”, cioè di pompe idrauliche azionate a forza di braccia per spruzzare l’acqua in caso di roghi. Nel 1730 proprio le pubbliche magistrature chiesero a Giovanni Poleni di valutare l’efficacia di queste macchine, scegliendo i modelli più adatti. Non risulta che nel caso del Santo tali macchine siano state impiegate per fronteggiare le fiamme; certo è che durante la ricostruzione delle cupole esterne, realizzate ancora con tecniche lignee, si collocarono nelle intercapedini alcune vasche d’acqua per la prevenzione dei rischi d’incendio.