In questo momento storico in cui la sostenibilità, le energie rinnovabili e l’ecologia sono i cardini per dare speranza al futuro del pianeta, la domanda che ci si pone è come stanno reagendo o reagiranno i paesi che fino a oggi hanno beneficiato economicamente delle proprie riserve petrolifere. L’Arabia Saudita, il più grande stato della penisola araba con la più grande concentrazione di riserve di petrolio in tutto il mondo, ha già iniziato a guardare al futuro, grazie alla firma nel 2016 del piano Vision 2030. Sotto lo slogan “Saudi Arabia the heart of the Arab and Islamic worlds, the investment powerhouse, and the hub connecting three continents”, il principe Mohammad bin Salman, promotore dell’iniziativa, ha deciso di investire in progetti post-petroliferi, con obiettivi a lungo termine. Il piano vuole intervenire su tre aree: società, economia-finanza e amministrazione. Su due punti però questa iniziativa non è totalmente in linea con il resto del mondo: l’emancipazione femminile e la ricerca.
Recentemente, l’Arabia Saudita ha concesso la patente di guida alle donne, dopo quasi 30 anni dalla prima manifestazione a favore di questa conquista. Questo “privilegio”, tuttavia, sembrerebbe aver poco a che fare con i diritti delle donne in Arabia. A livello economico, le donne rappresentano per il paese arabo il 22% della forza lavoro. Seguendo i dati riportati nel piano Vision 2030 il governo saudita spera di raggiungere entro la data prefissata il 30%, ipotizzando che, grazie a questo cambiamento, le donne saranno più autonome negli spostamenti verso il posto di lavoro.
Questo passo in avanti rappresenta solamente una piccola goccia nel grande mare della disparità di genere in cui naviga l’Arabia Saudita. La lotta per i diritti delle donne nel paese ha segnato il XX secolo in tutte le sue decadi, anche se i traguardi per l’emancipazione femminile hanno visto la loro comparsa solamente all’inizio del XXI secolo. Tra i vari diritti ancora negati alle donne ci sono la possibilità di viaggiare da sole, avere un processo equo, interagire con il sesso opposto e vestirsi liberamente.
Vision 2030 è un piano che propone soluzioni diverse al futuro post-petrolifero del paese: se da un lato l’Arabia Saudita punta a diventare una potenza mondiale sul piano economico e un punto di interscambio tra Europa, Africa e Asia, dall’altro troviamo una riforma a favore del progresso della ricerca scientifica ancora acerba. Il piano Research and Development program tenta, in un primo momento, di rafforzare e aumentare il livello di istruzione terziaria e della ricerca: i due obiettivi a lungo termine, infatti, riguardano l'aumento della posizione nel Global Competitiveness Index e avere almeno cinque università saudite tra le migliori 200 a livello mondiale.
Research and Development program si compone di 24 iniziative da attuare entro il 2020 e che si fondano su sei pilastri: allineare la ricerca con le necessità del paese, garantire i fondi necessari, misurare i risultati non solo in termini di pubblicazioni ma anche economici, investire in capitale umano, firmare partnership a livello mondiale e aumentare il rapporto con l’imprenditoria locale. La ricerca in Arabia Saudita si divide tra le strutture pubbliche, private e istituzioni internazionali: secondo i dati provenienti da un sondaggio svolto nel 2017 dal General Authority for Statistics, nel paese sono presenti 4.096 ricercatori autoctoni a cui aggiungere il numero sempre più elevato di ricercatori stranieri che arrivano nelle varie istituzioni.
Il Times Higher Education, il settimane inglese specializzato in notizie e approfondimenti relativi al mondo dell'università e in generale dell'istruzione superiore, ha rilevato come l’Arabia Saudita, pur avendo i fondi necessari a creare una ricerca ad alti livelli, rimane ancora ancorata al suo passato. I problemi sono molteplici, come riporta un articolo pubblicato all’inizio di luglio, ma in primo piano c’è la libertà accademica, limitata da ragioni politiche e culturali.
Non esiste nel paese una cultura accademica, un’abitudine nel considerare l’educazione superiore, quella universitaria, come un possibile traino per l’economia e soprattutto per la società. Gli investimenti di questo piano rivoluzionario sono, tuttavia, molto elevati rispetto ad altre nazioni con un sistema universitario più strutturato: in Vision 2030 sono previsti 1,6 bilioni di dollari per l’istruzione superiore, di cui 75 milioni destinati alle collaborazioni con partner internazionali.
A fronte di questo impegno, non c’è stata una risposta positiva a questa apertura del governo saudita. Uno dei motivi principali è la mancanza di etica della ricerca scientifica in Medio oriente, un problema che ha investito paesi come Egitto, Libano e Bahrein, secondo la ricerca presentata nel Journal of Academic Ethics. Pur non rientrando come campione di questa indagine, l’Arabia Saudita si ritrova a sottostare a questo pregiudizio, con il risultato che gli investitori e i partner stranieri non hanno fiducia nel sistema. Altro dato è il codice etico, soprattutto nella ricerca: diversi paesi, tra cui l’Italia e l’Europa, hanno adottato da tempo una serie di regole per dare integrità alla ricerca scientifica. Lo stato saudita non ha mai sottoscritto un documento simile, rimanendo nel limbo di chi ha le risorse economiche per cambiare il mondo della ricerca ma che non è ancora pronto a farlo.