SCIENZA E RICERCA
L'Australia brucia: cause, dati e fake news sulla situazione bushfire
L’Australia brucia da settembre, come avevamo spiegato qui, e la conta dei danni sale vertiginosamente di ora in ora.
Secondo le ultime stime dell’8 gennaio, siamo a 10,7 milioni di ettari percorsi dal fuoco: un’area pari a Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli Venezia Giulia e mezza Emilia Romagna messi insieme. Anche le aree protette non sono state risparmiate dalle fiamme, come il Wollemi National Park (sito UNESCO) e Kangaroo Island, solo per citarne due.
In questi mesi sono andati distrutti oltre 6.000 edifici, di cui 2.000 abitazioni; gli sfollati sono oltre 100.000 e 28 persone sono morte. L’aria densa di fumo, dalle tinte gialle e rosse, è irrespirabile. Mentre le stime sulla fauna colpita – ancora preliminari – fanno rabbrividire. Il bilancio, solo parziale, è già terribile così. Proviamo a capirne di più e diradare il fumo su dati, immagini, cause e notizie che si rincorrono in questi giorni.
La situazione attuale
Per avere un metro di paragone, gli incendi del 2019 hanno spazzato via 900.000 ettari di Amazzonia e 4,5 milioni di ettari in Siberia. È chiaro quindi che in Australia stiamo parlando di incendi che hanno già devastato una superficie pari al doppio dei roghi che hanno sconvolto l’opinione pubblica nel 2019. E purtroppo siamo solo all’inizio dell’estate australiana, che terminerà a fine febbraio.
Per quanto 10,7 milioni di ettari siano molti, attenzione però a dire che “l’Australia è in fiamme”. Fortunatamente non è così: fino ad ora il fuoco ha percorso “solo” l’1,4% di tutto il territorio australiano pari a 769 milioni di ettari. A contribuire a questa falsa percezione è stata un’immagine pubblicata su Instagram da un grafico di Brisbane, Anthony Hearsey. A una prima sommaria occhiata, l’immagine poteva risultare uno scatto immortalato dallo spazio, con l’Australia ripresa dall’alto e costellata di fuochi. In realtà Hearsey ha utilizzato i dati satellitari raccolti dal sistema FIRMS della NASA per creare un rendering 3D, insomma un’infografica, che mostra la somma di tutti gli incendi sviluppatisi nell’ultimo mese. Ma c’è di più, non solo è una somma di tutti gli incendi dell’ultimo mese e la maggior parte di questi è già spento, ma le dimensioni di ogni singolo fuoco sono state ingrandite – come ha dichiarato l’autore stesso – per aumentare l’effetto di bagliore. È quindi una rappresentazione artistica dei dati. Non la realtà, né attuale né passata.
Record sì o no?
In generale gli incendi attualmente coinvolgono: Nuovo Galles del Sud, Queensland, Western Australia, Victoria e South Australia.
Lo stato australiano più colpito è sicuramente il Nuovo Galles del Sud con 4,9 milioni di ettari andati a fuoco, 20 decessi e oltre 1600 abitazioni distrutte. Se guardiamo solo alla storia di questo stato, attualmente sì: siamo di fronte a un record. Le stagioni peggiori che il Nuovo Galles del Sud ricordi sono state infatti l’estate australe del 1974-75 e quella del 1984-85, rispettivamente con 4,5 milioni di ettari e 3,5 milioni di ettari bruciati.
Tornando a una visione globale, fortunatamente siamo ben lontani dalla peggiore primavera-estate che l’Australia ricordi, quella del 1974-1975, in cui bruciarono oltre 100 milioni di ettari, pari al 14% dell’intero territorio nazionale.
C’è però un incendio che sembra voler sfidare, quello sì, ogni record: il Gospers Mountain Fire. Provocato dalla caduta di un fulmine, questo incendio da solo ha già percorso da ottobre a oggi oltre 500.000 ettari di bush, il tipico ambiente di savana australiana arida, con erba e arbusti. E secondo Ross Bradstock, dell’Università di Wollongong, potrebbe essere il più grande incendio singolo mai registrato.
In ogni caso, per rimanere aggiornati sulla situazione australiana degli incendi – e degli incendi nel resto del mondo – il sito più attendibile, e con grafiche chiare è il Global Forest Watch Fires. Basta inserire l’intervallo di tempo, anche il singolo giorno, e l’area d’interesse.
Perché gli incendi sembrano inarrestabili?
Partiamo da un dato: la velocità di propagazione del fuoco e le dimensioni. Il fuoco corre, e anche parecchio, molto più di un uomo allenato che riesce a fare una decina di chilometri all’ora. Nel bush il fuoco viaggia a una velocità di circa 22 km/h. Mentre si diffonde tra le chiome degli eucalipti a circa 11 km/h. Questa è già una prima difficoltà nel fronteggiare gli incendi che diventano rapidamente fuori controllo. In alcune aree poi le fiamme hanno raggiunto anche i 70 metri d’altezza e hanno un’energia di 100.000 kW per metro lineare di fronte. In queste condizioni estinguere un incendio è quasi impossibile: i mezzi aerei hanno difficoltà a volare per la scarsa visibilità e quindi a lanciare acqua o agenti ritardanti; mentre i mezzi da terra con i vigili del fuoco non possono operare perché sono ben oltre il limite di sicurezza, che è pari a un’intensità di 4000 kW per metro lineare.
Quali sono le cause?
Le cause e le colpe sono molteplici. Iniziamo col dire che ad accendere la miccia sono stati eventi naturali, in particolare fulmini, ma anche tralicci della corrente caduti per i venti a oltre 100 km/h. Ma molti altri incendi sono attribuibili alla mano umana, tra errori evitabili, divieti temporanei inascoltati e roghi appiccati di proposito. E anche qui, si sono insidiate notizie scivolose e troll dell’ultima ora. Il caso è quello dei “piromani a piede libero” in Australia, ma la realtà – seppur triste – è ben diversa.
È vero, sono stati avviati procedimenti contro 183 persone accusate – non arrestate – a vario titolo di aver commesso reati connessi agli incendi boschivi tra Nuovo Galles del Sud, Victoria e Queensland. Tuttavia, secondo la smentita del Guardian, questo numero è un’accozzaglia di dati che in parte non si riferiscono neanche all’attuale stagione degli incendi. Insomma, è un numero che non ha molto senso. Solo per fare un esempio, 43 su 183 sono persone accusate nello stato di Victoria tra il settembre 2018 e il settembre 2019, quindi non c’entrano nulla con gli incendi attuali. E poi non tutti sono piromani: la maggior parte è gente sbadata e poco informata sul pericolo di incendi, che ha gettato a terra mozziconi di sigaretta o fiammiferi, che non ha rispettato il divieto di accendere fuochi e si è concesso una braciata. Dei famosi 183, infatti, solo 24 sono stati realmente arrestati – tutti nel Nuovo Galles del Sud – per aver appiccato intenzionalmente dei roghi in questa stagione. Insomma la prima causa di innesco sono i fulmini, seguiti da disattenzioni delle persone poco informate e solo in piccolissima parte c’è un piromane di mezzo.
Cosa ha permesso ai fuochi di divampare in questo modo?
Qualunque sia stata la scintilla, è evidente che gli incendi si sono propagati velocemente e su grande scala. Come mai? Basta osservare la cartina elaborata dall’Australian Bureau of Meteorology per rendersi conto di come le aree oggi devastate dalle fiamme negli ultimi 34 mesi (dal gennaio 2017 all’ottobre 2019) hanno sofferto una siccità estrema. Solo l’anno scorso, per esempio, l’Australia ha ricevuto precipitazioni inferiori del 40% rispetto alla media.
A dicembre 2019 l’indice di pericolo incendi boschivi – che tiene conto dei dati relativi a temperatura, velocità del vento, umidità e siccità – è stato molto al di sopra della media in buona parte del paese. Nel resto, il rischio è stato addirittura il più alto mai registrato rispetto a qualsiasi mese a partire dal 1950, da quando cioè sono iniziate le registrazioni.
Il caldo anomalo dell’ultimo mese, con una media mensile di 42°C e punte di 49°C, ha disseccato la vegetazione ancora di più fornendo le condizioni ideali per l’incendio perfetto. Mentre il vento forte ha fatto poi da comburente alzando le fiamme e consentendo loro di propagarsi più efficacemente.
Come se non bastasse gli incendi più grandi sono ormai in grado di alimentarne altri anche a grandi distanze. L’aria calda generata dagli stessi incendi, insieme a fumo e cenere, sale verso l’alto, si raffredda e si carica di umidità, formando nuvole temporalesche a sviluppo verticale, molto instabili. Si chiamano piro-cumulonembi e possono trasportare le ceneri roventi su aree molto vaste, generare fulmini e innescare così nuovi incendi. Insomma è un cane che si morde la coda. E a tutto questo bisogna aggiungere che i venti caldi e intensi possono dar luogo ai firenado, dei piccoli tornado di fuoco.
Cosa c’entra il cambiamento climatico?
In generale, possiamo dire che in Australia negli ultimi 70 anni le temperature medie annuali si sono alzate di circa 1,5°C e il 2019 è stato l’anno più caldo e più secco dal 1910 a oggi, con temperature da record. Il Paese dei koala e dei canguri, insomma, sta diventando sempre più bollente e arido. Una cosa che può non sorprendere troppo, ma per l’Australia c’è un altro fattore che è entrato in gioco.
Si tratta del dipolo dell’oceano Indiano (IOD), un’oscillazione irregolare della temperatura superficiale dell’oceano Indiano, per cui la sua parte occidentale diventa più calda (o più fredda) rispetto a quella orientale. Quest’anno il dipolo è stato positivo e la differenza di temperatura tra l’area est e ovest dell’oceano Indiano è stata una delle più accentuate degli ultimi 60 anni. Il che vuol dire che l’IOD ha provocato precipitazioni e inondazioni superiori alla media nell’Africa orientale, mentre ha portato siccità e caldo estremo nel sud-est asiatico, Australia compresa. I cambiamenti climatici – oltre a far alzare il termometro della Terra – interferiscono anche con il ciclo del dipolo dell’oceano Indiano ed eventi come questo potrebbero triplicare la loro frequenza. Insomma il cambiamento climatico crea le condizioni ideali perché eventi di questo tipo siano sempre più frequenti e disastrosi. Infine, secondo i dati della NASA, gli incendi di questi mesi in Australia hanno rilasciato circa 350 milioni di tonnellate di CO2. Di fatto, quindi, gli incendi australiani stanno contribuendo alla crisi climatica globale.
Ma gli incendi in Australia ci sono sempre stati
Sì, certo. La storia australiana è costellata di incendi. Lo abbiamo detto anche qui. Bruciano le foreste di eucalipto e il bush. Quella australiana è in buona parte una vegetazione nata con il fuoco: ci sono specie che hanno bisogno del fuoco per rilasciare i propri semi, altre per germinare, altre ancora sono resinose o contengono olii molto infiammabili per approfittare del passaggio del fuoco. Anche gli animali come i canguri approfittano per esempio dell’erba tenera che ricresce dopo gli incendi.
Il fuoco è quindi parte dell’ecosistema australiano, come lo è della macchia mediterranea che conosciamo meglio. L’ecosistema si rigenera, ma ci vuole tempo. E di tempo per rigenerarsi tra un incendio e l’altro potrebbe essercene sempre meno per colpa dei cambiamenti climatici. Del resto un rapporto del 2009 dello stesso governo australiano lo ammetteva candidamente. Secondo le proiezioni “entro il 2020, le giornate a rischio incendio nell’Australia sud-orientale potrebbero verificarsi dal 5 al 65% più spesso di oggi” e ancora “un aumento di 2 °C della temperatura media annuale aumenterebbe l’intensità degli incendi del 25%, aumenterebbe l’ampiezza dell’area bruciata e dimezzerebbe l’intervallo di tempo medio tra incendi nel territorio della capitale australiana”.
Quanti animali sono morti? E i koala rischiano di estinguersi?
Secondo le stime fatte dall’ecologo Chris Dickman dell’Università di Sydney, dall’inizio di settembre a oggi sarebbero morti a causa degli incendi circa 800 milioni di animali, tra mammiferi terrestri, uccelli e rettili. La sua stima precedente – quando gli ettari bruciati erano 7 e non 10 – ammontava a 480 milioni. In ogni caso il calcolo esclude i pipistrelli, tutti gli anfibi, i pesci e ovviamente tutti gli invertebrati. Dickman, però – e questo va detto – non ha contato gli animali effettivamente morti: i suoi calcoli ci dicono piuttosto “quanti animali potrebbero essere rimasti vittime degli incendi”. Dickman ha infatti stimato la densità di mammiferi, uccelli e rettili per ettaro nel Nuovo Galles del Sud (i suoi dati sono del 2007) e ha moltiplicato questa densità per l’area percorsa dal fuoco. Quindi oltre a non tener conto di pipistrelli, anfibi e invertebrati, la stima non tiene conto neanche della diversa mobilità degli animali: canguri, emù e uccelli possono essere scampati più facilmente alle fiamme. Ciò non toglie che chi è riuscito a sopravvivere al fuoco e al fumo, potrebbe morire nelle prossime settimane a causa della scarsità di cibo e di ripari, o perché più esposto a predatori. Mentre altre specie endemiche (in Australia ci sono 300 mammiferi endemici) potrebbero vedere spazzato via buona parte del loro habitat.
Per quanto riguarda i koala, le stime parlano di 8.000 koala morti, circa un terzo di quelli presenti nel Nuovo Galles del Sud. Fortunatamente, secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) ci sarebbero almeno 100.000 koala in Australia, se non 300.000. Avere una stima più precisa è difficile, ma tanto basta per dire che non sono sull’orlo dell’estinzione. I koala però se la passano male, questo bisogna dirlo. La stessa IUCN li classifica come “vulnerabili”: in 20 anni (1990-2010) la popolazione nazionale è diminuita del 28%, a causa della massiccia deforestazione, delle ondate di calore sempre più frequenti, degli incendi e della siccità estrema, ma anche per la pressione da parte di specie aliene e domestiche. Insomma, senza inutili allarmismi, hanno bisogno di azioni concrete se non vogliamo portarli davvero sull’orlo dell’estinzione.
Ci sarebbero ancora da chiarire questioni sulla politica australiana conservatrice, che punta sull’estrazione del carbone e non rispetterà gli accordi di Parigi, sul premier Scott Morrison negazionista climatico e sull’utilizzo della poca acqua che l’Australia si ritrova, visto che è coperta per gran parte da deserti e praterie aride. La vera angoscia, però, sta nell’essere consapevoli che la terribile estate australe è iniziata da poco (per convenzione inizia il primo dicembre) e durerà fino alla fine di febbraio. Insomma il bilancio è ben lungi dall’essere quello definitivo. E i danni si conteranno nei prossimi decenni.