Ci sono romanzi, tipicamente romanzi brevi, che paiono essere fatti dell’esatto numero di parole necessario a raccontare quella storia, quel tempo, quei personaggi: non una di più non una di meno. Sono romanzi che assomigliano a poesie.
Uno di questi è l’ultima fatica di Marco Missiroli, Avere tutto, uscito quest’autunno per Einaudi, che ha ricevuto il plauso sia del pubblico che degli addetti ai lavori.
Racconta la storia (autobiografica? non importa) di un giovane uomo che torna a Rimini a casa del padre in una sorta di sospensione del tempo che una cosa precisa opera: mette in comunicazione due voci distanti. Un padre burbero, appassionato imprevedibilmente di danza country, preoccupato per la stabilità economica del figlio, e quest’ultimo, ancora in cerca del suo proprio centro, attratto senza rimedio dal gioco d’azzardo, ma che di quel padre si sente padre a sua volta.
Missiroli riesce con estremo garbo e sfacciata bravura, servendosi di una lingua cesellata, dura, scarnificata e perfetta, a raccontare i silenzi, la provincia, l’acme delle situazioni e la caduta, l’interiorità del pensiero e le azioni agite anche quasi per sbaglio.
È un romanzo fatto di dialoghi, di movimenti dei corpi, di cibo cucinato sempre nella stessa cucina, di ricordi che affiorano e annegano, di possibilità che s’ingrossano, vengono sfidate, colte, mancate. È un romanzo sulla vita nel senso più brutale del termine: contiene la morte, la noia, lo sbaglio, l’eccitazione, i gesti quotidiani e quelli straordinari. Non esalta il bello, ma quel che c’è. Non addolcisce, non smussa né accomoda. È un romanzo che non contiene una sola singola frase da bacio Perugina o cartello di Instagram: è vera letteratura.
Chiedersi da quale recondito andito dell’animo o della vita dello scrittore questo frammento di realtà trasfigurata provenga è futile. Missiroli la chiama “contiguità” quella che i personaggi hanno con le persone della sua vita, compreso lui stesso.
La stessa contiguità, aggiungiamo noi, che Avere tutto ha con alcuni grandi esempi di letteratura italiana di tutti i tempi. Il gorgo di Fenoglio lo suggerisce Missiroli stesso, che fa dell’autore piemontese il padre putativo di questa sua ultima prova, forse per la ricerca di una lingua tesa, che accoglie il dialetto e non ammicca mai, ma anche per la scelta di narrare la provincia e, per certi versi, “la miseria” della vita. Impossibile però non sentire le affinità che Avere tutto ha anche con un altro racconto, stavolta di Sandro Veronesi. È Profezia, con cui si apre la raccolta Baci Scagliati Altrove e in cui il due volte vincitore del Premio Strega raccontava la morte di suo padre.
State pur sicuri che di Avere tutto sentiremo parlare ancora.
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