CULTURA
Autofiction vol.8: la storia d’amore della professoressa e la sua classe
Il detto “ogni romanzo è un romanzo d’amore” non è un’invenzione bislacca, ma nel caso di Domani interrogo di Gaja Cenciarelli (Marsilio) tanto di più perché l’affermazione non è da intendersi in senso lato – nonostante la protagonista sia una professoressa delle superiori e il suo interlocutore la sua Quinta A e non un uomo – ma va presa alla lettera.
Il sentimento che pervade le pagine (apertamente autobiografiche) di Cenciarelli è a tutti gli effetti un grande moto dell’anima di una “pressoré”, come la chiamano gli studenti, per la sua classe. Che non è certo – si badi bene – un tutt’uno indistinto, come dire un mostro a più teste, ma un florilegio di esistenze in quella fase della vita in cui tutto è ancora agli albori e splendidamente possibile, o viceversa terribilmente difficile.
“Che cos’è successo? Dov’è andato quel pezzo che le si è staccato dentro?” si chiede nel mezzo di un anno scolastico la professoressa. “L’immagine di sé che vedeva riflessa nei loro occhi si è frantumata. Ha litigato con la sua classe. È come una lite tra innamorati. Si sente tradita, incompresa. Amore. Una parola troppo complessa, con infinite implicazioni sentimentali che lei detesta, e che non c’entrano con questa situazione. Qui non c’è romanticismo, qui c’è mancanza di rispetto, ferocia. Non ci sono due persone, ma una comunità. Dov’è l’amore qui? Che amore è? La professoressa infila nella borsa il cellulare e si avvia verso l’uscita. Eppure, riflette, si sente tradita e ferita. Ma questo non è l’amore romantico, è l’amore della resistenza. […] È l’amore che se ne frega, che non si vendica. È quell’amore che esiste e basta, e lei ci è dentro fino al collo, per questo non sarà mai una brava insegnante, per questo il suo unico scopo è costruire un fallimento sublime”.
La professoressa (e traduttrice) nella vita racconta di sé nel romanzo in terza persona, senza neppure darsi un nome, spostando il fuoco dell’obiettivo sui suoi studenti, sulla routine scolastica che si tinge ogni giorno di imprevisti inimmaginabili, e scomparendo dietro e dentro di loro perché quel che Cenciarelli qui fa è raccontare l’umanità nelle sue declinazioni più sincere, prive del filtro che l’esperienza della vita consegna. Loro, invece, un nome lo hanno tutti, e leggendo viene di chiedersi se sia quello della vita vera ma poco importa, perché il grado di realtà che possiedono è assoluto indipendentemente dalla loro esistenza in carne e ossa.
Cenciarelli in questa sua ultima fatica ha uno sfacciato coraggio. Di mostrare cos’è la scuola, cos’è la vita, e come questa tiri schiaffi e abbracci talmente ravvicinati da togliere il respiro a chi sta lì a prenderseli. E lei e così. Resta. E i suoi studenti con lei.
Domani interrogo è un guado attraverso un’istituzione totalitaria qual è la scuola, che ha gergo, ritmi e modalità proprie, ma che appartengono a tutti perché tutti ci siamo stati, e passando di lì siamo diventati donne e uomini. Solo che a scuola c’è chi rimane, anno dopo anno. La “pressoré” e tutti quelli come lei, gli insegnanti, che devono continuamente decidere da che parte stare, a quali regole continuare a credere, se ridurre o aumentare la distanza tra sé e la materia di cui è fatta la scuola: gli allievi.
E la “pressoré” non ce la fa a evitare il “fallimento sublime” come lo chiama, che forse va di pari passo con la riduzione, per non dire la distruzione, di quella distanza. E con lei in cerca di salvezza vanno i suoi allievi; salvezza che, fuori dalla metafora della promozione, è un luogo più ampio, e più lontano. In un continuo andare di flashback and forward immaginiamo la sua rincorsa di donna e di insegnante (questo è lei per la sua classe) e quella di loro con lei.
“[…] morirà in un caldissimo sabato sera di inizio giugno, dentro una stanza asettica e fresca; morirà senza pensare, senza sperare, subito dopo avere sporcato il lenzuolo e il materasso come un neonato. Fuori, la professoressa ora lo ignora, il cielo sarà velato di umidità, senza stelle, e la luna sfocata. Lui morirà serissimo, con i pugni serrati. Quasi salvo”.
Ed è in quel quasi che si gioca la partita. Perché alle volte non si ha, quasi, la possibilità di diventare quel che la vita ci chiama a essere, anche solo perché non si hanno le parole per dirlo. “A’ pressorè, n’è che po’ fa’ lezione in inglese, eh! Qua manco capimo l’italiano!”.
Ma Cenciarelli le parole le trova, eccome.
“ L’immagine di sé che vedeva riflessa nei loro occhi si è frantumata. Ha litigato con la sua classe. È come una lite tra innamorati. Si sente tradita, incompresa Gaja Cenciarelli