SCIENZA E RICERCA

La banana rischia l'estinzione: solo l'editing genomico potrà salvarla?

Nel 2018 il mercato globale delle banane valeva più di 13,5 miliardi di dollari. La maggioranza assoluta della torta se la prende l'America Latina, che esporta il 58,7% di tutte le banane del mondo, per un totale di vendite di 8 miliardi di dollari.

Quest'estate il governo colombiano ha dichiarato che la produzione di banane è seriamente minacciata dall'infezione causata da un fungo, il Fusarium oxysporum, sottospecie cubense, ulteriormente classificato come Tropical Race 4 (TR4). 170 ettari di piantagioni sono stati messi in quarantena. Sotto l'attacco del patogeno, le banane marciscono e muoiono. Lo stesso fungo aveva già fatto la sua comparsa qualche anno fa, nel 2013, in Mozambico, in Africa, e in Giordania. Prima ancora, negli anni '90, era stato identificato nel Sud-Est Asiatico, a Taiwan, e da lì si era espanso fino in Australia. Oggi è arrivato anche in Sud America, e da qui minaccia l'intero commercio globale.

L'allerta è massima, perché la quasi totalità delle banane che arriva sulla nostra tavola appartengono alla stessa varietà, la Cavendish. Ciò significa che se non si riuscirà a fermare l'infezione, nel giro di qualche decennio le banane che mangiamo rischieranno l'estinzione.

 

Tutte le banane sono cloni sterili

Le banane sono frutti originari del sud est asiatico. La loro coltivazione è iniziata circa 10.000 anni fa, alla fine dell'ultima era glaciale. Allo stadio selvatico si trovano nella foresta, appese a una pianta gigante, e sono piene di semi duri che le rendono immangiabili. Ogni tanto capita però che alcune piante producano frutti senza semi, ricchi di nutrienti e molto gradevoli al palato. L'unica traccia di semi che contengono sono quei filamenti neri al centro che si vedono quando le si tagliano a rondelle. Questi frutti privi di semi non possono dar vita a nuove piante: sono sterili, non possono riprodursi.

Per coltivare banane, infatti, non si piantano semi, ma si trapiantano da un terreno all'altro parti delle radici della pianta che produce banane senza semi. Tutte le banane sono quindi figlie di pochissime piante. Geneticamente sono pressoché identiche tra loro. Sono tutte cloni.

Questa bassissima variabilità genetica le espone a rischi elevatissimi: se anche solo un patogeno risultasse capace di oltrepassare le loro difese immunitarie, l'intera popolazione risulterebbe a rischio, nessun individuo escluso.

Nella prima metà del XX secolo la varietà allora più in voga, la Gros Michel, fu spazzata via da un'infezione provocata da una variante dello stesso fungo, TR1, nota come malattia di Panama. La Gros Michel fu decimata mentre la Cavendish, una varietà originaria del sud della Cina e portata in Occidente da un botanico inglese nella prima metà dell'800, si dimostrò resistente all'infezione. La sua trasportabilità, la consistenza resistente e il suo gusto la resero un prodotto dominante sul mercato, tanto che anche i produttori di Chiquita a partire dagli anni '60 iniziarono a coltivarla. Oggi il 40% delle banane prodotte al mondo e la quasi totalità di quelle in commercio sono Cavendish, sopravvissute all'infezione di TR1, ma ora inermi d'inanzi all'attacco di TR4.

Biotecnologie per salvare le banane

I metodi agronomici tradizionali di incrocio con altre varietà impiegherebbero troppo tempo per arrivare a produrre e selezionare una varietà resistente al patogeno che possa sostituire in tempi utili la Cavendish, mantendendo le stesse qualità. La natura è lenta e graduale nella sua opera di mutazioni casuali e selezione delle varianti più adatte. Per salvare la Cavendish occorre un intervento mirato.

Il gruppo di ricerca di James Dale, biotecnologo della Queensland University of Technology a Brisbane, in Australia, nel 2011 ha pubblicato i risultati di uno studio in cui mostra che un gene contenuto in una banana selvatica (Musa acuminate malaccensis) è in grado di conferire al suo portatore la resistenza a TR4. Come riporta un articolo su Nature, qualche anno fa, in un campo nel nord dell'Australia, il suo gruppo ha piantato Cavendish nel cui genoma è stato innestato il gene che conferisce la resistenza a TR4 e oggi ne sta studiando la risposta all'attacco fungino. Un terzo delle banane “di controllo”, ovvero quello non munite del gene per la resistenza, risultano infette, mentre quelle modificate risultano sane. Alcuni risultati sono stati pubblicati già nel 2017, ma lo studio proseguirà fino al 2021, termine oltre il quale Dale chiederà di portare le banane dimostratesi resistenti sul mercato. Ma il passaggio è tutt'altro che immediato.

Si tratta infatti di banane trans-geniche: significa che il gene di un'altra varietà è stato inserito nella specie che si vuole migliorare. Ma il gruppo di Dale sta anche lavorando a banane cis-geniche: ricorrendo alle tecniche di editing genomico (Cirspr) sta tentando di esprimere un gene già presente nel genoma della Cavendish (lo stesso attivo in Musa acuminate malaccensis) che normalmente è silenziato. La sua attivazione potrebbe conferirgli la resistenza a TR4 senza dover inserire sequenze di Dna provenienti da altre specie.

Esistono altri metodi ancora per ottenere il medesimo risultato. Leena Tripathi, biologa molecolare dell'International Institute of Tropical Agriculture di Nairobi, in Kenya, sta usando l'editing genomico per sopprimere i geni e i recettori che rendono la Cavendish vulnerabile al fungo. Un'azienda di biotecnologie, la Tropic Biosciences di Norwich, nel Regno Unito, sta invece usando Crispr per migliorare il sistema immunitario della Cavendish.

Ad oggi l'intervento genetico mirato sul genoma della Cavendish è la via più promettente per salvarla dall'estinzione. Tuttavia, anche laddove l'intervento dovesse avere successo, non è detto che il prodotto possa essere immediatamente immesso sul mercato. Il problema è che la Cavendish è un prodotto globale e in diversi Paesi vigono norme diverse sulla produzione degli organismi geneticamente modificati e altrettanto varia è la loro percezione sociale.

Diverse normative in diversi Paesi

Negli Stati Uniti ad esempio la Food and Drug Adiministration nel 2016 aveva dato il via libera alla produzione e alla vendita di un fungo champignon (Agaricus bisporus) il cui genoma era stato modificato con Crispr per ritardarne il deterioramento e quindi conservarlo più fresco sugli scaffali. Negli Usa del resto la stragrande maggioranza di mais e soia coltivati sono Ogm. Politiche di apertura nei confronti dell'utilizzo del genome editing in campo agro-alimentare sono state mostrate anche da Brasile e Argentina, tra i maggiori produttori di varietà geneticamente modificate. Uguale disponibilità è arrivata dalla Colombia, dal Cile, ma anche dal Giappone e da Israele.

Molto diversa la situazione in Europa, che storicamente ha sempre tenuto una linea scettica sull'utilizzo di queste biotecnologie. L'ultima decisione è arrivata dalla Corte Europea a luglio del 2018: sostanzialmente è stato stabilito che le tecniche di genome editing sono da considerarsi alla stregua di tecniche transgeniche: significa che danno origine a prodotti classificati come Ogm e che devono quindi essere sottoposti a una lunga serie di controlli ambientali e sanitari. Tradotto in termini pratici, questi controlli comportano dei costi che non possono essere sostenuti dai piccoli laboratori, ma solo da quelli delle grandi aziende.

La direttiva europea sugli Ogm del 2015 lasciava però anche molto spazio ai singoli Stati membri. La coltivazione di Ogm ad esempio è consentita in Spagna (dove si coltiva il 90% del mais europeo), Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania. In Italia invece, non solo è proibita la coltivazione di prodotti Ogm, ma anche la ricerca sul campo. In altri termini, se dei ricercatori italiani trovassero in laboratorio il gene che può salvare la banana Cavendish, non potrebbero mettere il pratica la loro scoperta. Nonostante questo, l'Italia non chiude affatto le porte ai prodotti Ogm: li importa dall'estero, per destinarli soprattutto ai mangimi animali.

Mutazione, selezione, evoluzione

Gli organismi viventi esistono da più di 3,5 miliardi di anni e durante tutte le ere hanno subito modificazioni genetiche, alcune delle quali rivelatesi utili per l’adattamento all’ambiente. Le variazioni genetiche sono il carburante che alimenta il processo evolutivo che ha portato alla formazione della diversità della vita sulla Terra. A partire dalla rivoluzione agricola di circa 10000 anni fa, Homo sapiens ha iniziato ad addomesticare piante e animali, sottoponendoli a incroci e selezione artificiale, mischiando il loro materiale genetico in modi che non sarebbero avvenuti “in natura”. Le pratiche agricole umane sono risultate certamente molto invasive per gli ecosistemi: la crescita delle civiltà è avvenuta a scapito della biodiversità.

Oggi disponiamo di strumenti biotecnologici estremamente sofisticati e precisi per fare quello che l'uomo moderno ha sempre fatto. Il loro utilizzo è destinato a rimanere materia di discussione negli anni a venire, sia sul fronte etico sia su quello economico, passando per quello ambientale e sanitario. I timori che si portano dietro tecniche come Crispr spesso impediscono di sfruttare tutto il loro potenziale, perché vengono percepite come diavolerie “Contro natura”, come titola il libro pubblicato per Rizzoli nel 2015, e ancora attualissimo, da Dario Bressanini e Beatrice Mautino.

Occorre tenere conto che oggi è possibile ricorrere a queste tecniche per ridurre la perdita di biodiversità che è ormai il marchio di fabbrica dell'Antropocene, per ridurre l'uso di pesticidi, rendendo la pianta resistente al patogeno, o per eradicare malattie, come la malaria, che tengono in ginocchio interi Paesi. Si interviene sul genoma degli organismi, modificandoli, ma il meccanismo di mutazione indotto è quello con cui l'evoluzione ha sempre avuto a che fare. E agisce in coerenza con le leggi di natura.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012