Leggenda vuole che la prestigiosa casa editrice Adelphi abbia fatto esordire, dalla sua fondazione nel 1962 fino all’anno scorso, solo due scrittori italiani: Aldo Busi nel 1984 con Seminario sulla gioventù e Paolo Maurensig nel 1993 con La variante di Lunenburg, nientemeno. E poi, quest’anno, è stata la volta di Fabio Bacà, insegnante di ginnastiche dolci e scrittore talentuosissimo, con il suo Benevolenza cosmica.
Il romanzo è stato accolto da un incredibile favore sia di pubblico che di critica perché riesce in un’operazione che ha quasi del miracoloso. Bacà scrive un libro intelligente, che fa ridere il cervello ed emozionare il cuore, servendosi di una lingua altissima. L’idea da cui la trama scaturisce non è poi così originale: prendi un comune mortale e fallo perseguitare… dalla buona sorte, e sta a vedere che succede. “Era come se non riuscissi a capacitarmi” dice la voce narrante, Kurt O’Reilly (il nome è un esplicito omaggio a Vonnegut), “del fatto che l’esistenza potesse scorrere su cuscinetti così perfettamente lubrificati, in una perenne accelerazione che sembrava voler sovvertire le leggi del moto. […] Il punto era che le disgrazie capitavano regolarmente a qualcun altro. […] Era senso di colpa il mio? Il retaggio di un indottrinamento religioso protervo e afflittivo? O era solo una controindicazione dell’essere maschio, benestante, giovane, bello, colto, etnicamente privilegiato, e come tale intriso di una paradossale invidia di sé?”. È il modo in cui la trama dà vita a riflessioni brillanti e autoironiche, in grado di delineare il mondo che abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni – quello stesso che molti scrittori descrivono così com’è: duro, ingiusto, decadente –, a fare di questo libro un’opera rara. Suscitare la risata, e non quella di pancia, ma quella fine del cervello, è talento di pochi: leggere Bacà è quasi come leggere il Mordecai Richler de La versione di Barney, ed è detto tutto.
Una menzione particolare meritano le statistiche, oggetto di una piccola nota introduttiva, in cui l’autore si perita di specificare che più della metà di quelle contenute nel libro sono false, un artificio letterario (ma a pagina 136 sono tutte vere, fa sapere Bacà durante una presentazione: “gli abitanti dell’emisfero occidentale hanno 1 probabilità su 3375 di morire per soffocamento da ingestione di cibo; 1 su 6745 di morire per collasso da eccesso di temperatura; 1 su 116.448 di morire per il morso di un cane” ecc.). E in effetti il tema della casualità, o viceversa causalità, degli eventi sottende l’intera narrazione perché forse di destino scrive, inevitabilmente, ogni romanziere.
Non ci si aspetterebbe, infine, che all’ironia e al sarcasmo si sovrapponga infine l’emozione: le ultime pagine sono infatti perfino commoventi, a riprova del fatto che, se uno scrittore sa fare il suo mestiere, riesce a far provare al lettore davvero qualsiasi cosa.
Abbiamo intervistato l'autore:
“ Era senso di colpa? Il retaggio di un indottrinamento religioso protervo e afflittivo? O era solo una controindicazione dell’essere maschio, benestante, giovane, bello, colto, etnicamente privilegiato, e come tale intriso di una paradossale invidia di sé?