SOCIETÀ

Il binomio, tutto italiano, sciagure-leggi speciali

A voler pescare nella storia lontana, si può andare alla Napoli borbonica, che cominciò a parlare di interventi urbanistici urgenti per risanare la città già nella prima metà dell’800, per poi subire il grande piano del risanamento (detto lo sventramento) solo nell’anno 1885, post-unità d’Italia, a opera del governo Depretis e in seguito all’epidemia di colera. A voler andare  a tempi più vicini, saltando di quasi un secolo e restando nella stessa zona, si può citare la ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia, di cui è stato appena “celebrato” il quarantennale. Ma il binomio sciagure-leggi speciali costella tutta la storia politica, economica (e giudiziaria) dell’Italia, da nord a sud, da Messina al Mose di Venezia, dal Belice a L’Aquila. Trovando un degno parallelo solo nell’altro binomio, grandi eventi – leggi speciali, dai Mondiali di calcio del ’90 a quelli di Nuoto del 2009. Insomma: fatti straordinari che chiedono stanziamenti straordinari e poteri straordinari, per fare cose tutto sommato normali ma che nell’ordinaria amministrazione non si è riusciti a fare.

In questa lunga scia storica si deve collocare il dibattito sul governo dei fondi del Next Generation EU (NGEU). Al di là del battibecco politico contingente – minacce, crisi, rimpasto, verifica, tutte parole che chiudono il 2020 con suono poco adatto alla tragicità dell’anno -, in gioco, ancora una volta, c’è l’uso di poteri e strumenti speciali dopo una catastrofe. Solo che stavolta la catastrofe è per definizione più grande (una pandemia) e i soldi sono davvero tanti (208,6 miliardi in sei anni). Ne parliamo da tanti mesi che adesso ci sembra normale, ma qualcosa di straordinario si è prodotto: un’inversione a U della politica economica europea, la trasformazione di Bruxelles da capitale dei vincoli e dell’austerity a capitale delle risorse, sotto forma di sovvenzioni e di prestiti agevolati. Una buona notizia, sia pure maturata in troppi mesi e con difficili e a volte discutibili compromessi; che può trasformarsi in una nuova disgrazia, se quei fondi saranno gestiti secondo il modello invalso dallo sventramento di Napoli in poi. Purtroppo questa tentazione potrebbe essere agevolata dalle circostanze. Lo stato di emergenza, motivato da esigenze sanitarie, è già una realtà da mesi; ora si tratta di trasformarlo in stato di eccezione nelle decisioni di economia pubblica, ricorrendo alle formule di “struttura di missione” oppure “governance”. Ma perché serve una governance, se un governo ce lo abbiamo già? E qual è la missione?

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, richiesto dal NGEU come premessa per l’avvio dell’intero processo, parla della necessità di agire con rapidità ed efficacia e per questo introduce la “struttura di missione”. Dando per scontato il fatto che l’amministrazione italiana questa capacità non ce l’ha. Qui c’è un paradosso: lo stesso Piano che ammette che i problemi dell’economia italiana sono preesistenti alla pandemia, e che quindi vanno affrontati alla radice, non prende in considerazione la possibilità di riformare quella macchina che non funziona, senza la quale neanche i 300 (o più, o meno) valorosi della “struttura di missione” potranno fare alcunché. Molto di più potrebbero fare le nuove forze che entreranno nella pubblica amministrazione in virtù del normale turn-over per i pensionamenti, se scelte con criteri selettivi e immesse dove servono per riaccendere una macchina spenta o ingolfata (si veda su questo il documento-appello di Forum Diseguaglianze Diversità, Movimenta e Forum PA). Impossibile che una riforma capillare e dall’interno come quella che serve alla macchina amministrativa centrale e locale italiana possa essere calata dall’alto della “struttura di  missione”. Quel che i suoi membri, scelti peraltro senza una selezione trasparente e competitiva, potranno fare, se avranno i poteri speciali in deroga alle leggi esistenti – in tema di concorrenza, corruzione, ambiente – è allocare quei fondi in modo più discrezionale e meno controllato. In passato, abbiamo visto che questi poteri speciali hanno ampliato clientelismo e corruzione senza accorciare i tempi né garantire la qualità delle opere. Perché stavolta dovrebbe essere diverso?

L’altro paradosso è legato alla natura stessa del problema che si vorrebbe risolvere. Abbiamo visto che sia nella gravità della diffusione del contagio, che nell’emergenza organizzativa di alcune regioni (dalla Lombardia alla Calabria), fino alla distribuzione dei banchi nelle scuole, quel che non ha funzionato è esattamente l’ordinaria amministrazione e la sua efficacia sul territorio. In altre parole: non c’è bisogno di opere straordinarie, ma di una capillare manutenzione – o rinnovo, in molti casi – dell’ordinario. Qui il discorso sulla struttura speciale passa dal metodo al merito: gli investimenti, ai quali secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza andrà il 60% dei fondi, saranno concentrati su pochi grandi progetti, o su una distesa di piccoli interventi? O entrambe le cose? Questo non è ancora chiaro, sono noti soli i titoli dei capitoli dettati dalla strategia europea – digitale e ambiente. Ma facciamo un esempio tra i pochi esplicitamente citati nel piano: gli asili nido, citati nell’ambito della strategia sulla parità di genere. Offrire nuovi asili, potenziare gli esistenti, rivederne strutture e orari, vuol dire conoscere le esigenze del territorio, il numero degli educatori che usciranno dalle scuole e dalle università ogni anno, la quantità di famiglie e il tipo di lavoro e mobilità che hanno. Informazioni che hanno, o meglio, dovrebbero avere, i Comuni. Mentre dal documento del governo sembra che si pensi solo al cemento per costruire gli asili, e magari ad altri banchetti rotanti da far arrivare. Anche per la sanità – che ha una fetta tutto sommato limitata degli investimenti nel piano – le esigenze che si sono manifestate in questi mesi riguardano la medicina territoriale, la rete dei medici di famiglia (ai quali in molte regioni non è arrivato neanche il vaccino contro l’influenza), la dotazione di terapie intensive degli ospedali. Non la costruzione di pochi grandi centri di eccellenza.

Il metodo “poteri speciali”, infausto nel passato, potrebbe al limite avere una giustificazione per un modello di nuovi investimenti tutto basato su grandi opere gestite dal centro (tra parentesi, il contrario di quanto il principale partito del governo, ossia il Movimento Cinque Stelle, ha sempre sostenuto). Ma di certo non ha senso per investimenti in beni pubblici come quelli appena citati. Se l’epidemia ha portato a un cambio di paradigma capace di stravolgere persino la costituzione materiale dell’Unione europea, sembra più duro da scalfire il modello italiano dell’economia dell’emergenza. 

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