SOCIETÀ

Il Brasile al bivio presidenziale: a ottobre riconfermerà Bolsonaro o vincerà Lula?

La campagna elettorale è di quelle aspre, nei toni e nei modi, come ovunque accade quando la posta in gioco è molto alta. E in Brasile, il prossimo 2 ottobre, sarà altissima: una sorta di bivio, che senza alcun dubbio determinerà le sorti a venire del più grande Paese del Sud America, per dimensioni e per economia. Da un lato c’è il presidente uscente, Jair Bolsonaro, un populista di estrema destra che ne ha combinate di ogni nel quinquennio appena trascorso al Palácio da Alvorada: dalla pessima gestione dell’emergenza Covid, che in Brasile ha provocato 680mila morti (una commissione d’inchiesta del Senato brasiliano l’ha denunciato al Tribunale Internazionale per crimini contro l’umanità, per aver boicottato il programma di vaccinazione), alla sistematica nomina di ufficiali militari a incarichi civili (dalla Difesa alla Salute), che ha spinto alcuni analisti a parlare di “militarizzazione dell’amministrazione Bolsonaro” («L’esercito è dalla nostra parte», ha annunciato il presidente uscente a un recente comizio centrato sui tre caposaldi “Dio, Armi e Famiglia”).

Fino alla distruzione sistematica della foresta amazzonica, incoraggiando la deforestazione a vantaggio degli interessi delle multinazionali, tollerando l’invasione violenta delle terre indigene, calpestando diritti umani e scatenando una campagna di odio contro gli attivisti per la difesa della terra e dei diritti umani. Come conferma Global Witness nel suo ultimo report: «La foresta pluviale amazzonica è gravemente minacciata dall’agrobusiness distruttivo. Il Brasile è anche uno dei paesi più letali al mondo per i difensori della terra e dell’ambiente, molti dei quali provenienti da comunità indigene». Secondo Greenpeace, «Bolsonaro è una catastrofe per l’ambiente». Eppure, nonostante queste carte, non proprio lusinghiere, il presidente uscente è accreditato nei sondaggi di un 32% di preferenze (un elettore su tre, non è poco). La sua base è composta in gran parte da cristiani evangelici, polizia, militari, grandi imprese e proprietari terrieri.

Lula: «Vogliamo ricostruire il Brasile»

Il suo sfidante, che risponde al nome di Luiz Inácio Lula da Silva, per tutti semplicemente “Lula”, è da decenni un’icona della sinistra brasiliana che ha già ricoperto il ruolo di presidente (dal 2003 al 2011) e che ha conosciuto l’onta dell’arresto per corruzione, nel 2018, nel pieno della campagna elettorale che portò alla vittoria di Bolsonaro (se non fosse finito in carcere, dicevano i sondaggi, avrebbe vinto lui). Nel 2021 la Corte Suprema del Brasile ha dichiarato nulle le condanne a suo carico, restituendogli non soltanto la libertà, ma anche la nuova chance di candidarsi per la presidenza. E di nuovo contro Bolsonaro. Lula, 76 anni, punta al trionfo: «Il momento che sta attraversando il Brasile è grave e ci costringe a superare le nostre differenze, a costruire un percorso alternativo all’incompetenza e all’autoritarismo che ci governano», ha dichiarato lo scorso maggio, quando ha annunciato la sua candidatura. «Vogliamo unirci ai democratici di tutte le posizioni politiche, classi, razze e credenze religiose, per sconfiggere la minaccia totalitaria, l’odio, la violenza e la discriminazione che incombono sul nostro paese. Siamo pronti non soltanto a lavorare per vincere le elezioni del 2 ottobre, ma per ricostruire e trasformare il Brasile, il che sarà ancora più difficile». Il leader del Partido dos Trabalhadores (partito dei lavoratori, PT) ha già dettato le priorità della sua agenda: riforma del lavoro (reddito minimo per tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito o dal fatto che abbiano o meno un lavoro) e del fisco, migliorare le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione brasiliana, compresa la lotta alla fame e all’inflazione, che ha determinato un drammatico calo del potere d'acquisto), e difesa dell’Amazzonia e opposizione alla politica di distruzione imposta da Bolsonaro. «Combatteremo i crimini ambientali e garantiremo la protezione dei diritti e dei territori delle popolazioni indigene contro l’avanzata di attività predatorie, come l’estrazione illegale dell’oro e il disboscamento». Per poi aggiungere, senza troppe cortesie: «Bolsonaro? È un fascista squilibrato». Lula, al momento, è 12 punti avanti nei sondaggi: 44%, un margine solido, ma non sufficiente per evitare il rischio del ballottaggio. Perché una cosa è certa: Lula non ha ancora vinto. E Bolsonaro è pronto a tutto (letteralmente) pur di non cedere all’odiato rivale di sinistra la presidenza del Brasile.

La strategia del “Tropical Trump”

Le schermaglie sono già cominciate. Il “Tropical Trump” (come Bolsonaro era stato definito lo scorso anno in un puntiglioso articolo pubblicato dall’Harvard International Review) è davvero convinto di vincere: «Non possiamo scegliere un barbiere per guidare una Ferrari», ha detto di Lula, sprezzante. E per riuscirci ha già individuato le tre principali direttrici (oltre al solito refrain Dio-Armi-Famiglia e alle battaglie contro i diritti di gay, donne e afro-brasiliani) che seguirà la sua campagna “di rincorsa al consenso”, se vogliamo così definirla. La prima: “corteggiare” i più poveri. Per farlo, ha dovuto chiedere il mese scorso l’approvazione di un emendamento costituzionale che consente al governo di superare, nell’anno delle elezioni, i limiti di spesa. Così ha trovato le risorse per aumentare le risorse per l’Auxilio Brasil, un piano integrato di sussidi (che comprende assistenza sociale, sanitaria, istruzione, occupazione e reddito) a beneficio di circa 20 milioni di brasiliani, i più vulnerabili. Grazie all’aumento, le famiglie interessate riceveranno a partire da agosto, ma soltanto fino a dicembre 2022, un assegno minimo di 600 Real (pari a circa 112 euro). Un’iniziativa che gli ha immediatamente fruttato un salto in avanti nel gradimento (virtuale) stimato dai sondaggi. Secondo punto: flirtare con l’esercito, mostrarsi “parte di loro” e “dalla loro parte”, c’è da scommettere in cambio di qualcosa di sostanzioso. Fatto sta che Bolsonaro (ex capitano dell’esercito) avrebbe deciso di trasformare la tradizionale parata militare del 7 settembre (anniversario dell’indipendenza del Brasile) in un evento elettorale a suo uso e consumo, addirittura costringendo le truppe a sfilare lungo la spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro, e non sui viali del centro, come da tradizione. Suscitando perfino le ire di un ex generale, ora in pensione, Paulo Chagas: «In qualità di comandante in capo, ha tutto il diritto di cambiare la sede della parata militare, ma non di collegarla a un’attività di campagna elettorale. I militari devono stare fuori dalla politica». Giova ricordare che il Brasile ha conosciuto, nel suo recente passato, un ventennio di dittatura militare, dal 1964 al 1985. E l’attuale ministro della Difesa, il generale Walter Braga, candidato alla vicepresidenza con il Partido Liberal, si è spinto addirittura a elogiare il golpe del ’64, definendolo «un movimento che ha permesso di pacificare il Paese e che, come tale, andrebbe celebrato». Se due più due fa quattro, l’obiettivo di Bolsonaro (e di chi lo voterà) è assai chiaro.

E infine il terzo punto, il più “trumpiano”, il più pericoloso: instillare il sospetto. Parlare già ora di potenziali brogli elettorali, di elezioni “inquinate”, al punto che molti temono cosa potrebbe accadere in caso (probabile) di un risultato negativo. Scrive l’organizzazione indipendente International Crisis Group: «Molti brasiliani temono che se perderà a ottobre, il presidente rifiuterà di accettare la sua sconfitta e chiamerà i militari per aiutare a contrastare la volontà degli elettori. Bolsonaro ispira devozione tra coloro che abbracciano la demonizzazione della sinistra. I suoi sostenitori non potrebbero tollerare il ritorno al governo del Partito dei Lavoratori. Negli ultimi anni hanno fatto ricorso ad atti pubblici di provocazione e minacce aperte per raggiungere i loro obiettivi. Inoltre, il Brasile è inondato di armi. Non ci sono prove che suggeriscano che sia organizzata una milizia di estrema destra, ma i sostenitori di Bolsonaro potrebbero comunque scendere in piazza in massa per cercare di impedire un trasferimento pacifico del potere». Lui, il presidente uscente, potrebbe formalmente impugnare il risultato elettorale (elettronico) e denunciare irregolarità, in puro stile Trump. Però il sistema elettorale brasiliano è centralizzato (a differenza di quello degli Stati Uniti). L’organismo principale di controllo è il Tribunale Superiore Elettorale, che sovrintende tutto quel che concerne le elezioni presidenziali. Ma per Bolsonaro il rispetto delle istituzioni è una variabile, a seconda del suo tornaconto. Come dire: potrebbe essere disposto a tutto pur di ribaltare l’esito delle urne. Lo scrive, esplicitamente, ancora Crisis Group: «Il disprezzo di Bolsonaro per la democrazia è ben documentato. In più di un’occasione ha affermato che lascerà la presidenza solo “morto o arrestato: solo Dio potrebbe rimuovermi da Brasilia”». All’inizio di agosto una squadra di “tecnici militari”, inviata dal ministero della Difesa, è andata nella sede del Tribunale Superiore Elettorale per “ispezionare il codice sorgente delle urne elettroniche”.

Lula sa perfettamente di che pasta è fatto l’avversario. Perciò non usa guanti bianchi: «Rispetto al 2003, quando fui eletto presidente per la prima volta, il Brasile ha più disoccupazione, più inflazione, il tasso di interesse è molto alto», ha dichiarato in un recente comizio a Teresina, nello stato nord orientale del Piauì. «La benzina è più costosa, il diesel, il gas da cucina. I fagioli sono più costosi, il riso. La carne è scomparsa dalla tavola dei lavoratori. Tutto questo perché il Paese è fuori controllo. Ora Bolsonaro vuole ingannare la popolazione con aiuti elettorali: evidentemente pensa che il popolo sia bestiame. Noi distribuiremo libri, non armi. Forniremo cibo e costruiremo scuole, invece di scavare fosse in un cimitero. E garantiremo il rispetto delle persone».

Armi, delitti e provocazioni

Ma Lula conosce altrettanto bene i rischi che sta correndo, in una campagna elettorale che potrebbe da un momento all’altro degenerare e far deragliare l’intero processo democratico. L’episodio più grave è accaduto il 9 luglio scorso a Foz de Iguazú, cittadina nel sud del Paese, nello Stato del Paraná , quando Marcelo de Arruda, 50 anni da festeggiare proprio quel giorno, tesoriere locale del Partido dos Trabalhadores, è stato avvicinato da un sostenitore di Bolsonaro, agente penitenziario, che l’ha ucciso sparandogli tre colpi di pistola. Lula ha affidato a Twitter non soltanto le sue parole di cordoglio per la vittima, ma soprattutto il suo appello a mantenere la calma: «Abbiamo bisogno di democrazia, dialogo, tolleranza e pace». Compito non semplice, perché la rabbia e l’indignazione potrebbero crescere: «Questi episodi nascono da gruppi di estrema destra, molti esponenti dei quali, incluso il presidente, hanno idee fasciste: non vogliono riconoscere le istituzioni e le regole», è stato il commento dell’attivista Darci Frigo, presidente del Consiglio nazionale brasiliano per i diritti umani. «Bolsonaro ha deciso di eliminare la sinistra e ha permesso ai suoi sostenitori di usare la violenza per farlo, per dividere e odiare. Quello che è successo a Foz de Iguaçu non è un caso isolato, è stato incoraggiato dalla retorica del presidente». Che ha risposto, minimizzando: «È stata soltanto una stupida rissa». Le liste che sostengono Lula hanno chiesto che nei giorni di elezioni sia vietato girare armati.

Luiz Inácio Lula da Silva ha i numeri per far cambiare strada al Brasile (il 51% dei giovani è pronto a votare per lui, contro il 20% di bolsonaristi). È stato capace di costruire attorno a sé una grande coalizione di partiti (dai Verdi ai Socialisti), comprese formazioni di centro (Rede) e addirittura di centrodestra (Avante, Pros e Agir). Il suo gradimento nelle classi più ricche è in aumento, mentre Bolsonaro guadagna consensi tra i più poveri, grazie al piano dei sussidi. E qualora dovesse vincere, aggiungerebbe un tassello fondamentale a quel “vento di sinistra”, di rinnovamento progressista, che sta accarezzando gran parte del Sud America: dal Cile di Gabriel Boric al Perù di Pedro Castillo, dalla Colombia di Gustavo Petro alla Bolivia di Luis Arce, oltre a Venezuela, Uruguay, Paraguay, Ecuador. Lula è così: sa accendere entusiasmi, impastando ideologia politica, solidi programmi sociali e romanticismo. «Ho accettato, ancora una volta, l'invito a continuare la lotta per costruire un Brasile più giusto e indipendente, dove ogni brasiliano può mangiare tre volte al giorno, può avere un lavoro, istruzione e salute, e può vivere in un Paese sempre più moderno e umano. Un appello che è arrivato dai miei sostenitori, ma anche dal profondo del mio cuore». Della sua vicenda personale, in un’intervista al Financial Times, Lula dice: «Se c'era corruzione, doveva essere indagata e, nel caso, le persone avrebbero pagato un prezzo per aver commesso l’errore. Ma quello che è successo in Brasile è stata un'azione politica per cercare di distruggere l’immagine di molte persone e impedire a me di diventare presidente nel 2018». Di Bolsonaro: «Èdiventato un paria dell’umanità». Del timore di golpe: «Lui è uno che bluffa. Potrebbe volere un colpo di stato, ma si troverebbe da solo». Della difesa dei più poveri: «La spesa sociale è un investimento, non un costo. Quando i poveri smettono di essere molto poveri e diventano consumatori di salute, istruzione e beni, l’intera economia cresce». E del Brasile, che promette di riportare sulla scena mondiale come una grande potenza in via di sviluppo, responsabile per l’ambiente e socialmente consapevole: «Introdurremo una nuova forza di confine e ridurremo drasticamente la deforestazione: Dobbiamo rendere la conservazione dell'Amazzonia una priorità assoluta».

Per tutto ciò il Brasile è a un drastico bivio, e tra poco più di un mese i brasiliani saranno chiamati a decidere da che parte schierarsi. E questa volta in ballo c’è il futuro della democrazia. Se il 2 ottobre nessuno dei candidati otterrà il 50% dei voti, il 30 ottobre si voterà ancora per il ballottaggio: e qui i sondaggi assegnano sì a Lula la vittoria, ma con una forbice più ridotta, attorno al 5%. Si tratta della 9ª elezione generale in Brasile dalla fine della Dittatura militare, con la successiva promulgazione della Costituzione (1988). Ma il finale di questa partita è ancora tutto da scrivere.

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