Foto: Faisal Al Nasser/Reuters
Anche se il 2019 è iniziato da pochi giorni, la cronaca mondiale riporta già uno scenario sconfortante per quanto riguarda i diritti delle donne; i principali protagonisti sono due paesi, da anni al centro delle lotte per l’uguaglianza e la parità di genere: l’India e l’Arabia Saudita.
In precedenza avevamo già analizzato la situazione femminile del paese arabo, con piccole battaglie vinte, sparse nel tempo: quella più recente è legata all’accesso delle donne alla finale di Supercoppa italiana, che si disputerà proprio in Arabia il prossimo 16 gennaio. Il King Abdullah Sports City, lo stadio di calcio pronto ad accogliere le due squadre italiane, prevede due “sezioni”: la prima, singles, è riservata solamente agli uomini, mentre families è destinata sia a uomini che donne. L’ingresso alle donne negli stadi è stato concesso solamente un anno fa, con alcune restrizioni: settori dedicati, ingressi e parcheggi separati.
For the first time in its history, Saudi Arabia allowed women to enter its national stadium:https://t.co/XeiNBT7b32 pic.twitter.com/ybhozCmK4U
— Women in the World (@WomenintheWorld) 26 settembre 2017
La polemica si focalizza su questa “segregazione” delle tifose: poco dopo l’inizio della vendita dei biglietti per la partita, ci sono stati diversi dubbi sulla gestione del pubblico femminile. Il chiarimento è arrivato dall’ambasciata di Riad a Roma, con la conferma che le donne possono raggiungere lo stadio e assistere alla partita autonomamente, cioè senza accompagnatore di genere maschile.
L’opinione pubblica in Italia ha più volte chiesto di non giocare la partita ma in campo c’è un interesse economico che schiaccia prepotentemente le contestazioni. Tra l’Arabia Saudita e la Lega Serie A c’è un accordo triennale: il paese arabo ospiterà per tre edizioni la finale della Supercoppa, il valore complessivo si aggira intorno ai 24 milioni. Sull’altro piatto della bilancia ci sono le violazioni dei diritti umani e della libertà di espressione che l’Arabia Saudita continua a esercitare.
Oltre ai diritti delle donne, l’omicidio di Jamal Khashoggi è al centro del dibattito: il giornalista arabo, collaboratore del Washington Post, è stato assassinato nell’ottobre dello scorso anno. Una persona “scomoda” per il governo saudita a causa della sua visione progressista e alle sue critiche nei confronti dell’erede al trono Mohammed Bin Salman e dell’intervento militare in Yemen. Il 3 gennaio si è aperto a Riad il processo per l’omicidio del reporter: gli 11 imputati, di cui 5 con condanna a morte, sono tutti sauditi. L’Unione sindacale dei giornalisti Rai ha pubblicato il 4 gennaio un comunicato in cui si chiede al governo di bloccare la Supercoppa, in nome della Costituzione e “per chiedere verità sull’omicidio Khashoggi, in nome dell’art.21”.
Il conflitto Arabia Saudita-Yemen è la causa della manifestazione pacifica che si è tenuta il 9 gennaio a Roma davanti alla sede Rai. Il movimento Sardegna Pulita, infatti, si è opposto alla Supercoppa: le armi utilizzate nello scontro in Yemen sono state acquistate dall’Arabia Saudita da un’azienda tedesca con sede in Sardegna. La fabbrica, infatti, è da diversi anni protagonista delle battaglie del movimento per la sua riqualificazione.
Attraversiamo, metaforicamente parlando, il mar Arabico e raggiungiamo l’India, seconda protagonista di questo inizio anno, e in particolare lo stato del Kerala. È il 2 gennaio, sono circa le 3.30 quando due donne, Bindu Ammini e Kanaka Durga, entrano nel tempio di Sabarimala, lasciano un’offerta a Appaya, il dio indù celibe, si fermano qualche momento a pregare e poi escono. Il giorno seguente un altra donna, originaria dello Sri Lanka, è riuscita ad entrare.
Fin qui sembra tutto regolare ma il gesto di queste tre donne rappresenta un evento eclatante per la comunità indiana: lo scorso settembre, infatti, la Corte suprema dello stato del Kerala ha eliminato il divieto per le donne in età fertile di entrare nel tempio di Sabarimala, unico luogo in cui vigeva ancora questa chiusura. Di norma, il divieto d’ingresso per le donne è limitato ai giorni delle mestruazioni: nel tempio dedicato a Appaya, invece, la chiusura era estesa dalla pubertà alla menopausa. La decisione della Corte non era mai stata messa in atto fino a questo momento.
Per supportare la decisione della Corte suprema e i diritti delle donne in India, milioni di donne sono scese in piazza nella giornata del primo gennaio per formare una catena umana, raggiungendo una lunghezza di circa 620 chilometri.
Una grande vittoria per tutte le donne che ha portato, tuttavia, a violenti scontri nelle strade e nelle città del Kerala. Secondo i giornali locali, le rivolte sono state organizzate dal gruppo paramilitare e nazionalista Rashtriya Swayamsevak Sangh, collegato al Bharatiya Janata Party, il partito politico che governa l’India di natura conservatrice. Lo stato del Kerala, tuttavia, è amministrato dal Partito comunista dell’India, uno dei primi sostenitori della scelta di togliere il divieto.
Uno scontro tra religione e diritti delle donne: la Corte suprema ha ricevuto 49 petizioni per rivedere la sentenza e ha accettato di fissare un’udienza per il 22 gennaio.