È l’ennesimo campanello d’allarme a suonare e al cui invito, probabilmente, ancora una volta non risponderemo con sufficiente enfasi. Entro il 2100 il cambiamento climatico potrebbe provocare improvvise e catastrofiche perdite di biodiversità, portando all’estinzione almeno il 15% delle comunità vegetali e animali. E nel prossimo decennio potremmo già assistere alla prima ondata: non si tratta di un unico collasso finale, ma di una serie di tsunami. L’avvertimento, nero su bianco, arriva dalle pagine di Nature dove un team internazionale ha cercato di capire quando e dove possano verificarsi questi eventi, e come scongiurarli.
La crisi climatica e quella ecologica – ormai dovremmo averlo capito – vanno di pari passo. Con l’aumento della temperatura media globale molte specie vegetali e animali si stanno già spostando alla ricerca della loro temperatura ottimale, ormai perduta. Ma potrebbero trovarsi presto superare la loro soglia di tollerabilità climatica: a dover cioè fronteggiare improvvisamente un clima troppo diverso da quello a cui si sono adattate nel corso di decine di migliaia di anni. Andando così incontro all’estinzione. È questo il punto da cui è partito il gruppo guidato da Alex Pigot, del Centro per la ricerca sulla biodiversità dell’University College di Londra. E come si poteva facilmente intuire, i risultati non prevedono nulla di buono: entro la fine del secolo moltissime specie potrebbero varcare la soglia di tollerabilità di colpo e tutte insieme, nello stesso momento.
Per capire quando e dove il cambiamento climatico guiderà i processi di estinzione, il team ha selezionato i dati climatici rilevati dal 1850 al 2005 e li ha incrociati con i dati relativi agli areali di 30.652 specie di uccelli, mammiferi, rettili, anfibi, pesci e altri animali e piante. In questo modo è riuscito a generare un modello che prevede fino al 2100, anno per anno, l’impatto del riscaldamento globale sulla biodiversità. In particolare il modello riesce a prevedere come potrebbero reagire diverse specie animali e vegetali, sia terrestri che marine, quando le temperature diventeranno costantemente più alte di quelle a cui si sono adattate, per almeno cinque anni consecutivi.
Purtroppo «i rischi dei cambiamenti climatici per la biodiversità non aumentano gradualmente» ha spiegato Pigot. «Mentre il clima si riscalda, all’interno di una certa area la maggior parte delle specie sarà in grado di far fronte alle aumentate temperature per un po’, fino a quando non si troverà ad attraversare una soglia di temperatura: ovvero un punto oltre il quale una grande parte delle specie dovrà affrontare improvvisamente condizioni che non hanno mai sperimentato prima. E la soglia verrà attraversata da più specie contemporaneamente. Non siamo davanti a un dolce pendio, ma a una serie di voragini che si apriranno aree diverse in momenti diversi».
Per scoprire dove e quando si verificheranno questi eventi, il team ha immaginato due scenari differenti. Nello scenario ad alte emissioni, in cui la temperatura media globale aumenterà di 4°C entro il 2100, almeno il 15% delle comunità animali e vegetali in tutto il mondo rischieranno l’estinzione: più di una specie su cinque supererà la sua soglia di tollerabilità climatica. E lo faranno tutte insieme nello stesso decennio, provocando un danno irreversibile al funzionamento dell’ecosistema.
Se invece l’aumento della temperatura media globale verrà contenuta entro i 2°C rispetto ai livelli preindustriali, allora probabilmente meno del 2% delle comunità e del 20% delle specie che le costituiscono andrà incontro a una tale catastrofe. Anche se, all’interno di questo 2%, ci sarebbero alcuni degli ecosistemi più importanti e biodiversi al mondo, come le barriere coralline. Tali regimi di temperatura senza precedenti, infatti, inizieranno prima del 2030 negli oceani tropicali e i recenti eventi di sbiancamento di massa dei coralli nella Grande barriera corallina australiana sono già un chiaro segnale di quanto accadrà. In Africa, invece, la perdita improvvisa di biodiversità potrebbe iniziare potenzialmente già nel 2040 nello scenario peggiore, e comincerebbe dal Sahel, dalle foreste pluviali del Bacino del Congo e dalle coste degli oceani Indiano e Atlantico. Mentre gli ecosistemi che si trovano a latitudini più elevate potrebbero raggiungere il punto di non ritorno entro il 2050. «Speriamo che le nostre scoperte possano servire da sistema di allarme rapido, prevedendo quali aree saranno maggiormente a rischio e quando, e che possano aiutare a indirizzare gli sforzi di conservazione e migliorare le future proiezioni dei modelli. Potrebbe essere utile sviluppare un programma di monitoraggio decennale – simile a quello per il clima, ma per la biodiversità – che potrebbe essere aggiornato regolarmente in base a ciò che effettivamente accade» ha sottolineato Cory Merow dell’Università del Connecticut, coautore dello studio.
«I nostri risultati evidenziano l’urgente necessità di mitigare i cambiamenti climatici, riducendo immediatamente e drasticamente le emissioni per salvare migliaia di specie dall’estinzione» continua Pigot. «Mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C appiattisce efficacemente la curva del rischio, fornendo più tempo alle specie e agli ecosistemi per adattarsi al cambiamento climatico, sia che si tratti di trovare nuovi habitat o di modificare il loro comportamento, con l’aiuto anche di progetti di conservazione». Speriamo solo che non cada nel vuoto anche questo appello.