È sempre più pesante la situazione nelle carceri italiane, mentre tra affollamento in crescita e continua a il dramma senza fine dei suicidi: 69 lo scorso anno, con un trend addirittura in aumento per il 2024. Una situazione difficile dalla quale ogni tanto sembrano emergere piccole oasi; da 20 anni ad esempio è attivo presso la casa di reclusione di Padova, nota anche come Due Palazzi, il polo universitario dell’ateneo padovano: a coordinarlo dal 2011 c’è Francesca Vianello, docente di sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale oltre che direttrice del master in criminologia critica e sicurezza sociale.
“La prima convenzione tra ateneo e dipartimento dell'amministrazione penitenziaria risale al dicembre 2003: all’inizio si trattava sostanzialmente di un’attività di volontariato da parte di nostri docenti, alcuni dei quali in pensione – racconta Vianello a Il Bo Live –. Iniziammo con due-tre studenti e oggi ne abbiamo una sessantina, con sei scuole che offrono corsi di laurea come giurisprudenza, psicologia, agraria ed economia”. Un’iniziativa che nasce per rendere effettivo anche per quanto riguarda l’università il diritto all’istruzione come forma di rieducazione e di reinserimento sociale, in teoria garantito a ogni detenuto ma spesso di fatto quasi impossibile da esercitare. Operazione tutt’altro banale, quella di organizzare in un luogo di reclusione un vero e proprio piccolo ateneo: implica infatti che sia riconosciuto e garantito l’accesso alle strutture per docenti e materiali, formare specifiche commissioni d’esame e di laurea e infine mandare regolarmente tra le sbarre decine di studenti a fare da tutor ai loro colleghi detenuti: “un esperienza molto richiesta dai nostri iscritti, ogni anno riceviamo circa 200 domande per una cinquantina di posti disponibili”, spiega la docente.
Che ruolo giocano l'istruzione e anche il lavoro nel percorso dei detenuti? Quali sono i punti positivi e cosa invece va ancora migliorato?
“È evidente che per un detenuto lavorare e formarsi è fondamentale. Su questo purtroppo, come per altri ambiti, in Italia c'è grande discrepanza tra realtà e ciò che viene definito a livello normativo, dove in teoria saremmo all’avanguardia. Mancano sicuramente risorse, ma la questione sta anche nella dimensione strutturale del carcere come luogo incentrato sulla propria sicurezza interna, in ragione della quale può in qualsiasi accesso o forma di trattamento possono essere ogni momento bloccati. Così anche a Padova, spesso giustamente considerata un modello a livello nazionale, quasi metà della popolazione carceraria non studia, non lavora e non si forma. Spesso inoltre a frequentare corsi e attività sono sempre le stesse persone, quelle con maggiore capacità di adattamento e di relazione, mentre stranieri, tossicodipendenti e malati psichiatrici fanno grande fatica”.
Continuano anche in questi giorni i suicidi: perché in carcere si continua a morire?
“Ogni suicidio cela ovviamente anche una storia personale: di fatto però in carcere i suicidi sono 17 volte più della media. A concorrere sono più elementi: certamente si tratta di una popolazione già vulnerabile, che spesso presenta già all’ingresso nella struttura problemi di salute o di dipendenze; poi però incidono anche le condizioni in cui si vive. Abbiamo appena superato i 60.000 detenuti: una situazione analoga a quella che nel 2013 aveva portato alla condanna dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti umani (Cedu). C’è poi una carenza strutturale di medici, educatori e operatori: abbiamo un agente di polizia penitenziaria ogni due detenuti, il numero più alto in Europa, e solo un funzionario giuridico pedagogico ogni 75 detenuti, in alcuni istituti appena uno ogni 200. In questa situazione non è materialmente possibile svolgere un lavoro di osservazione e di cura individuale. Una terza questione, non meno importante delle altre, è che oggi manca anche la speranza. Dopo la condanna della Cedu erano state prospettate riforme importanti: può sembrare un dettaglio ma il clima esterno è essenziale per chi vive costantemente privato della propria libertà. Poi però, come spesso accade, la montagna ha partorito un topolino: tante cose non sono state fatte, per molti versi anzi si è tornati indietro. Infine c’è stato il Covid, e adesso viviamo una situazione di stasi che rischia di portare questa gente alla disperazione: attualmente non c’è altra prospettiva se non quella di stare sempre peggio”.
Quanto conta anche la formazione del personale carcerario? Episodi come i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere fanno pensare…
“Teniamo innanzitutto presente che la polizia penitenziaria negli ultimi anni è cambiata: molti agenti ad esempio oggi sono laureati, oltre che formati e sensibilizzati sia sulla dimensione costituzionale della pena, sia su tipologie di intervento non più rivolte esclusivamente alla sicurezza ma anche ad agevolare il trattamento. Il problema non è tanto l’aspetto punitivo della pena, quanto la sua dimensione degradante: Massimo Pavarini diceva che la pena è anzitutto degradazione di status. I processi di infantilizzazione e disculturazione forse sono superabili, ma probabilmente non all’interno di questo tipo di strutture”.
Si può pensare allora pensare anche a risposte diverse dal carcere?
“Certamente, il che non significa non dare risposte. La reclusione, per la sua stessa organizzazione interna e per la continua contrapposizione tra sorveglianti e sorvegliati, è una situazione che produce naturalmente processi come quelli accennati. Da osservatrice dell’associazione Antigone le dico però che gli istituti dove ci sono più attività e più lavoro sono anche quelli dove gli agenti vivono e lavorano meglio, tra l’altro con meno sindromi da burnout da gestire. Un elemento molto importante è anche rappresentato dal riconoscimento sociale della polizia penitenziaria, che in molti casi soffre ancora oggi i giudizi e i pregiudizi del mondo esterno. Molto spesso infatti il carcere continua a produrre degradazione sociale: non solo per i detenuti, ma anche per le altre persone che ci lavorano o lo frequentano”.