C’è un macigno giudiziario che pesa sul già aspro braccio di ferro tra Catalogna e Madrid, sul referendum mai riconosciuto, sulla pretesa d’indipendenza catalana stroncata a suon di arresti nel 2017 dalla procura generale spagnola. Perché ora, a poco più di un anno da quel referendum che ha spaccato in due l’opinione pubblica, non soltanto spagnola, sono arrivate le richieste di condanna per gli indipendentisti catturati.
Richieste pesanti: 25 anni di carcere per l’ex vicepresidente catalano, Oriol Junqueras, 17 per la ex presidente del parlamento Carme Forcadell, 17 per i leader delle associazioni della società civile indipendentista.
Poco meno per gli altri ex membri del governo Puigdemont. Tutti accusati, con vari livelli di gravità, di aver organizzato una ribellione violenta (violenta a parole, a gesti), con il fine di dichiarare la secessione della Catalogna.
Anche se la violenza l’hanno subìta fisicamente gli elettori, con l’azione della polizia nazionale e della guardia civil, che quell’1 ottobre 2017 caricarono i votanti in fila ai seggi sparando proiettili di gomma, con un bilancio finale di oltre 700 feriti tra Barcellona e Girona.
Eppure il solo indire il referendum, cui seguì la simbolica dichiarazione d’indipendenza, è stato considerato dai giudici spagnoli alla stregua di un colpo di stato. E sul banco degli imputati, oltre che in carcere, sono finiti loro, gli organizzatori.
E i più alti dirigenti dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale catalana, che di fatto disobbedì all’ordine del governo centrale d’impedire la consultazione, limitandosi a controllare la situazione, spesso senza intervenire.
La Procura ha chiesto una condanna a 11 anni di carcere per l'ex capo dei Mossos, Josep Llui's Trapero, e per l'ex direttore del Mossos, Pere Soler: per entrambi l’accusa è ribellione.
“ Oggi non c’è stato alcun referendum, ma una messa in scena. Il nostro stato di diritto mantiene la sua forza e resta in vigore. E reagisce di fronte a chi vuole sovvertirlo Mariano Rajoy
L’allora premier spagnolo Mariano Rajoy, la stessa sera della consultazione terminata con la vittoria netta degli indipendentisti, ma con un’affluenza tutt’altro che robusta, appena al 42%, dichiarò: «Oggi non c’è stato alcun referendum, ma una messa in scena. Il nostro stato di diritto mantiene la sua forza e resta in vigore. E reagisce di fronte a chi vuole sovvertirlo».
Manuel Castells, giornalista de La Vanguardia, commentava così il 22 settembre 2017, pochi giorni prima del voto e quindi prima ancora degli scontri ai seggi: «Non c’è stata una trattativa, neanche un cenno. Pura e semplice repressione. Giudiziaria e fisica, come nei moderni regimi autoritari che coprono le loro vergogne con le foglie di fico dei tribunali».
Nell’elenco degli imputati non compare il nome di Carles Puigdemont (e di altri 6 secessionisti fuggiti all’estero): l’ex presidente catalano si è rifugiato in Belgio (oggi vive a Waterloo) e il tribunale supremo spagnolo ha dovuto incassare un doppio no alla richiesta di estradizione (sua e degli altri esuli) dai giudici tedeschi prima e belgi poi.
«La Spagna è una e indivisibile»
Del resto il governo spagnolo aveva definito fin da subito il referendum illegale, forte del parere del Tribunal Supremo di Spagna, l’equivalente della nostra Corte Costituzionale, che aveva sospeso la consultazione per dubbi di costituzionalità. «Il diritto internazionale – sostennero i giudici - prevede l’autodeterminazione solo in caso di dominio coloniale o occupazione straniera. Mentre la Spagna è una e indivisibile».
Di contro, la Generalitat de Catalunya contestava la decisione, sostenendo che i giudici non fossero indipendenti, ma al servizio dell’esecutivo: «Votare è sempre e comunque un esercizio democratico insopprimibile». E rimarcava le sue rivendicazioni separatiste basandole su ragioni storiche, culturali ed economiche. La Catalogna è una delle regioni più ricche della Spagna, con una fortissima identità culturale, una propria lingua e una storia fatta di battaglie politiche (l’opposizione al franchismo, la perdita di qualsiasi autonomia durante la dittatura che vietò perfino l’uso della lingua catalana, la riconquista dei propri diritti nel 1978). Con Barcellona a fare da locomotiva, oggi la Catalogna è tra le regioni più industrializzate del paese, contribuisce a oltre il 20% del pil spagnolo, con un reddito pro capite assai superiore alla media del paese (quasi 30mila euro contro 24) e con una disoccupazione al 15,7%, contro il 19,6% della Spagna.
Numeri che spingono gli indipendentisti a sostenere che i catalani stiano sovvenzionando lo stato spagnolo, che dal 2008 in poi ha imposto insostenibili misure di austerity per fronteggiare la crisi economica. E chiedere mano libera nella gestione dei propri affari, convinti di potersi sostenere da soli.
A gennaio 2019 le prime udienze
Un anno dopo le squadre sono ancora schierate, ciascuna nel proprio campo. E la prossima partita, sicuramente carica di tensioni, si giocherà nelle aule dei tribunali, a partire da gennaio 2019, quando a Madrid e a Barcellona cominceranno i processi: gli accusati dovranno rispondere, oltre che di ribellione, anche di malversazione, vale a dire l’utilizzo di fondi pubblici per aver organizzato un referendum dichiarato illegale. Ma la miccia è ancora accesa. Perché in un anno sono cambiati alcuni contorni della vicenda, e diversi protagonisti, ma non la sostanza.
La Catalogna è ancora spaccata a metà tra i sostenitori dell’indipendenza e gli unionisti. Le elezioni del 21 dicembre 2017 hanno sancito che le forze indipendentiste sono sempre maggioranza, ma Ciudadanos (unionista) è diventato il primo partito. Il nuovo presidente catalano, Quim Torra, fedelissimo di Puigdemont, eletto dopo 5 mesi di stallo, sta riallacciando i rapporti con il nuovo premier spagnolo, il socialista Pedro Sanchez. Rapporti che sembrano più distesi, soprattutto dopo la revoca del “commissariamento” della Catalogna da parte di Madrid (la Generalitat ha tra l’altro appena riaperto la sua delegazione italiana, a Roma, in via IV Novembre, che era stata chiusa dopo il referendum). Ma all’orizzonte non c’è traccia di accordo. Al di là dei toni più soft, le posizioni restano nettamente distinte. «Ho spiegato a Sánchez che ho 56 anni, i miei figli sono grandi e non ho nulla da perdere» – ha dichiarato Quim Torra a Catalunya Ràdio, dopo il primo incontro con il premier spagnolo.
«È stata una riunione sincera. Ho spiegato chi sono e cosa sono disposto a fare. Non ho il diritto di rinunciare all’autodeterminazione. Se rinunciamo tutto perde senso: i prigionieri politici, gli esiliati». Torra chiede aperture significative (ricevendo peraltro critiche dalle frange più estreme degli indipendentisti), ma Sanchez non sembra avere alcuna voglia di negoziare, dal momento che da subito ha escluso qualsiasi possibilità di concedere un nuovo referendum sull’indipendenza della Catalogna.
Una voce fuori scena
L’attore fuori scena di questo quadro politico è Carles Puigdemont: non si vede il volto, ma le sue parole arrivano chiare. Dalla sua residenza di Waterloo, appena saputo delle richieste di condanna, ha chiesto pubblicamente aiuto alla Ue: «La voce europea contro gli abusi dello Stato spagnolo è più necessaria che mai» - ha dichiarato l’ex presidente catalano. Anche se difficilmente una voce si alzerà prima delle elezioni europee, a fine maggio 2019. Resta il fatto, oggettivo, che la Spagna è oggi l’unico paese europeo ad avere prigionieri politici.
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