In Italia se ne è parlato poco. E, tutto sommato, anche in Europa. Ma all’inizio meno di due mesi fa, Xi Jinping, presidente della Cina, nel corso del terzo summit sulla Cooperazione Cina-Africa che si è svolto a Pechino gli scorsi 3 e 4 settembre, ha messo a disposizione dei paesi del continente nero l’equivalente di 50 miliardi di dollari per la realizzazione di infrastrutture, di fonti di energia pulita e altri progetti. Altri 10 miliardi di dollari, sostiene la rivista scientifica Nature saranno investiti, per progetti analoghi, da aziende cinesi.
La torta è molto grande. E non è dato sapere, al momento, come sarà divisa tra i 53 paesi africani (su 54) che hanno partecipato al forum né come sarà farcita (fuor di metafora, quali saranno i progetti finanziati). Tuttavia è certo che l’impegno cinese in Africa nel campo della scienza e dell’informazione sarà piuttosto robusto.
L’idea è quella di dare agli africani non il pesce, ma la canna per pescare. E oggi, dicono a Pechino riattualizzando il loro antico proverbio, la canna da pesca più efficiente è la scienza e, più in generale, l’intero campo della conoscenza.
Pertanto saranno messe a disposizione di giovani africani almeno 50.000 borse di studio per la formazione al più alto livello in Cina. Altre 50.000 borse di studio andranno a giovani africani che intendono perfezionare gli studi partecipando a corsi più brevi o a seminari. I campi di intervento saranno i più ampi, dall’agricoltura al contrasto ai cambiamenti climatici, dall’intelligenza artificiale alla fisica quantistica.
Tra le azioni certe ci sono le borse di studio per la formazione postlaurea in Cina o anche in istituzioni africane che fanno riferimento alla Cina, come il Centro comune sino-africano di ricerca che è localizzato presso l’Università Jomo Kenyatta per l’Agricoltura e la Tecnologia di Juja, in Kenya. Il centro, come riporta ancora Nature, è stato aperto nel 2013 e collabora con l’Orto Botanico Wuhan in Cina. In meno di cinque anni ha già prodotto moltissimi lavori scientifici nel campo della biodiversità e del controllo dei cambiamenti climatici.
Un altro esempio è l’Università della Salute e delle scienze connesse di Ho, in Ghana, che nel 2015 ha ricevuto dalla Cina fondi per 20 milioni di dollari e che altri ora ne aspetta. Mentre 500 grandi esperti cinesi si apprestano a lasciare il paese asiatico per raggiungere l’Africa e aiutare i contadini locali a modernizzare l’agricoltura locale. D’altra parte il governo cinese ha già creato nel continente nero, con propri fondi, 20 centri per lo sviluppo delle più moderne tecnologie utili all’agricoltura.
Queste notizie si prestano ad alcune considerazioni. La Cina sta puntando con i fatti sull’Africa. La strategia è chiara: assicurarsi risorse di cui ha grande bisogno (terra arabile, minerali). Ma anche favorire la nascita di un nuovo mercato in rapida crescita (non fosse altro che per motivi demografici) per l’ingente quantità di beni prodotti in Cina. Vista da Pechino è una saggia strategia di medio e lungo periodo.
Ma è davvero utile per l’Africa o si tratta di una forma nuova di imperialismo. Non sarà che i 60 miliardi offerti a settembre si trasformeranno presto in un debito capestro che renderà ancora una volta subalterni i paesi africani?
La domanda si presta a diverse risposte. Molto dipenderà dalle classi dirigenti africane. Certo è che la Cina sta favorendo una rivoluzione cognitiva, nel tentativo di creare un nucleo endogeno forte di ricerca e alta formazione in Africa. È la prima volta che accade, almeno in queste dimensioni.
Non ci soni solo luci, neppure in questo campo. Molti, in Africa, dicono: va bene l’aiuto, ma la Cina non sta favorendo affatto la capacità di fare ricerca e alta formazione in Africa. In altri termini, sta creando una nuova dipendenza del continente nero, sia pure molto più sofisticata di quella creata dagli occidentali. Anche perché, come ha dichiarato a Nature un giovane studioso africano, Ademola Adenle, l’intervento cinese a favore della ricerca e dell’alta formazione in Africa avviene all’insegna della mancanza di trasparenza. Probabilmente è vero. Ma Ademola Adenle parla da Fort Collins, negli Stati Uniti, dove studia sviluppo sostenibile presso la Colorado State University. E, forse, la sua denuncia è velata da qualche pregiudizio.
Meglio, almeno per ora, attenersi ai fatti. E i fatti sono che la Cina è molto attiva in Africa, molto più sia della distratta Europa e sia degli oscillanti Stati Uniti d’America. Non è una percezione, sono dati di fatto. Gli aiuti occidentali all’Africa negli ultimi lustri sono diminuiti e, in ogni caso, sono stati erogati secondo strategie poco chiare e, anche, poco trasparenti.
La partita africana è grande e il suo esito potrebbe avere conseguenze di non poco conto non solo nel continente nero ma anche sugli equilibri geopolitici e persino militari a scala planetaria. Per la prima volta l’Africa ha discrete opportunità di sviluppare le sue università e la sua ricerca scientifica, condizione forse non sufficiente, ma certo necessaria per entrare con buone chance di poter competere nell’economia della conoscenza.
Se tutto si risolverà in reale sviluppo o in una nuova forma di imperialismo non ci è dato, al momento, saperlo. Ma se gli europei, italiani compresi, non vogliamo che l’Africa sia colonizzata, anche in termini cognitivi, dalla Cina, occorre che si sveglino e inizino a stabilire rapporti densi e solidali con le nazioni del continente che è stata la culla dell’umanità.