CULTURA

Cinema, la battaglia finale per salvare i film in sala

Stiamo per arrivare al punto in cui con “stasera andiamo al cinema” intenderemo “accomodiamoci sul divano”? A osservare la salute delle sale cinematografiche in Italia, si direbbe che siamo sulla buona strada. Non ci sono, per ora, segni di ripresa dallo choc del covid, che ha inferto un colpo terribile a un settore (il cinema in genere, e in particolare il cinema nelle sale) che nell’ultimo periodo pre-pandemia si stava risollevando da una crisi pluriennale.

La questione non è, evidentemente, solo di tempi che cambiano. Che uscire di casa per godersi un film su grande schermo sia una modalità di “consumo culturale” sempre meno popolare è evidente da molto tempo. Ma adesso il corto circuito generato dalla dinamica covid – mascherine – piattaforme streaming rischia, se non si prendono provvedimenti strutturali, di segnare una svolta definitiva. Il punto è decidere se fruire di questa forma d’arte nella modalità in cui è stata concepita sia ancora un valore oppure no. Se il buio in sala, lo schermo panoramico, la presenza del pubblico siano o meno elementi costitutivi dell’esperienza cinematografica, e quindi si debba tentare di preservarli, anche intervenendo sulle libertà di mercato. In caso contrario, si affermerà un principio: che il cinema su grande schermo è ormai da considerare semplicemente un modello di business in declino, che non merita di essere tutelato a causa del gradimento sempre maggiore, e degli introiti crescenti, per la fruizione casalinga di film e serie tv.

Il problema, tra l’altro, è molto più drammatico in Italia che altrove. Secondo i dati Anica, da noi la crisi non è giunta al picco nel tremendo 2020, chiuso con un -71% di incassi e presenze sul 2019 (anno record della ripresa pre-pandemica); al contrario, la tendenza negativa si è accentuata anche nel 2021, segnando rispetto al 2020 un ulteriore -7,2% di incassi (in totale 169,4 milioni di euro) e -11,9% di presenze (24,8 milioni di spettatori): caso unico tra i grandi paesi dell’Europa occidentale, che in genere nel 2021 hanno segnato robuste riprese rispetto all’anno precedente. In Francia si è registrato il + 47% di presenze, mentre gli incassi di Germania, Regno Unito e Spagna sono risaliti del 20, 75 e 45%. Ma la ripresa da cui l’Italia è esclusa è globale: secondo il rapporto della Motion Picture Association, a livello mondiale gli incassi in sala nel 2021 hanno fatto segnare un +81% rispetto al 2020, che arriva addirittura a +105% per l’area Usa-Canada, primo mercato cinematografico al mondo dopo la Cina.

È innegabile che l’Italia abbia pagato una politica più restrittiva nell’accesso alle sale (basti pensare che le mascherine in sala sono rimaste obbligatorie fino al 15 giugno di quest’anno). Ma questo non spiega un divario così ampio. Entrano in gioco fattori storici di debolezza del cinema italiano, di condizioni di manutenzione e ristrutturazione dei cinema, di rapporto tra numero di sale a schermo singolo e multisale, di politiche distributive e promozionali. Secondo Anica, alla fine del 2021 erano attivi in Italia 1064 cinema, per un totale di 3245 schermi, con una perdita di 75 sale e 179 schermi rispetto a dicembre 2019; un dato sostanzialmente confermato mesi dopo dal presidente degli esercenti Anec Mario Lorini, che in un’intervista dello scorso maggio parlava di 1082 sale funzionanti. Ma la pandemia purtroppo è ancora in corso, e quindi sarà significativo censire il numero dei sopravvissuti a emergenza davvero ridimensionata (non diciamo finita, anche per scaramanzia). Il covid non ha che accelerato un processo in atto, con la creazione di molteplici piattaforme streaming (italiane e internazionali) che hanno rafforzato abitudini al consumo casalingo di cinema che già erano abbondantemente in corso, grazie anche al perfezionamento delle tecnologie legate all’home cinema, che consentono di crearsi in casa schermi di buone dimensioni con eccellenti definizione e audio. A inizio 2022, gli abbonamenti a pagamento a contenuti streaming nel nostro paese erano 14,5 milioni (fonte EY).

In questo contesto, la politica come interviene? Al momento, in Italia il tema dei rapporti tra esercizio cinematografico (le sale) e piattaforme è imperniato sulle cosiddette “windows”, l’intervallo che deve intercorrere tra l’uscita di un film in sala e le altre forme di sfruttamento dell’opera. Ogni paese ha una sua regolamentazione, di maggiore o minore tutela delle sale a seconda dei rapporti di forza tra le categorie in gioco e del ruolo più o meno incisivo della normativa di settore. In Italia esiste un intervallo minimo di 90 giorni tra il debutto nelle sale e il successivo esordio in streaming e con ogni altro canale media: ma questo vale solo per le pellicole italiane che ricevono contributi pubblici. Di recente, il ministro Franceschini ha dichiarato l’intenzione di estendere la “window” di 90 giorni a tutte le opere cinematografiche, senza riguardo per la nazionalità. Per rendere l’idea dell’approccio abissalmente diverso da parte della Francia, si può guardare alle disposizioni approvate di recente sulle “windows” cui sono obbligate le piattaforme che diffondono i loro contenuti nel paese. Fino a pochi mesi fa, l’intervallo sale-streaming era di 36 mesi: dopo un accordo con alcuni colossi del settore, il nuovo provvedimento riduce la finestra, che rimane comunque di 15 mesi per Netflix (tra i firmatari dell’accordo) e 17 mesi per le altre piattaforme. Intanto, pochi giorni fa, nel nostro Senato è stata presentata una mozione, firmata da esponenti di partiti di diverso orientamento, che propone una finestra di 180 giorni di esclusiva in sala per tutti i film per i prossimi tre anni.

Nel frattempo, il Ministero della Cultura ha recepito una richiesta che da tempo veniva dal mondo del cinema: avviare uno studio approfondito sul pubblico cinematografico italiano. Lo scorso aprile il dicastero ha bandito una selezione per analizzare in che misura e perché gli spettatori gradiscano vedere i film al cinema, e quali siano le loro aspettative. Lo studio sarà quali-quantitativo, dovendo evidenziare non solo propensioni, ritrosie, attese, delusioni dei cinefili, ma anche arrivare alle dimensioni delle diverse fasce di pubblico, per capire a quanto ammontano i “duri e puri” della sala e coloro che hanno abbandonato il grande schermo, per quali motivi (legati al covid o no) e con quali possibilità di ripensamento. Particolare attenzione, recita il bando, verrà dedicata all’offerta di cinema italiano, e a come questa venga recepita dal pubblico rispetto alla produzione europea ed extraeuropea. La selezione è stata vinta da SWG, che ha ora tempo fino a metà settembre per elaborare un documento che diverrà, ci si augura, uno strumento prezioso per comprendere le ragioni dell’affezione e disaffezione del pubblico alle sale, e soprattutto per consentire al legislatore di correre ai ripari, prima che le sale diventino una manciata di reliquie del cinema che fu.

 

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