CULTURA

Cinema: tra Iran e Ucraina, la fede che unisce e separa

Due opere lontane tra loro, per mondi raccontati e modalità narrative, accomunate da un tema: il potere della fede religiosa di intervenire sulla società e sul quadro politico, passando attraverso esperienze personali e familiari. Sono l’ucraino Mother of Apostles, visto al Religion Today Film Festival, e l’iraniano-norvegese-svizzero Radiograph of a Family, proposto nella rassegna Middle East Now. Mother of Apostles, diretto dal georgiano Zaza Buadze, ci porta nei teatri della guerra in Donbass, la regione separatista filorussa nell’Ucraina orientale. La trama parrebbe ideale per un melodramma patriottico: Sofia, studiosa di tradizioni popolari, viene a sapere che l’aereo comandato dal figlio Misha è stato abbattuto sopra i territori secessionisti, mentre era in missione umanitaria per rifornire di viveri i connazionali assediati. Senza esitare raggiunge la zona occupata, e si impegna in una rischiosa ricerca del ragazzo e dei suoi compagni di volo. Sorretta da una fede silenziosa quanto salda, Sofia attraversa luoghi lacerati da lutti e divisioni sanguinose (che non risparmiano le stesse forze separatiste), raggiungendo e portando in salvo diversi commilitoni di Misha, fino a riuscire a raggiungere il luogo in cui l’aereo è precipitato, e apprendere finalmente la verità sul figlio.

Malgrado il film sia chiaramente orientato in una sola direzione (i separatisti vengono definiti “terroristi”, e il personaggio più ripugnante è il comandante russo che prende il sopravvento sui secessionisti locali), Buadze riesce a inserire, in una storia a rischio retorica, chiaroscuri non scontati. Sofia non è un personaggio stereotipato: la fede che la guida si esprime quasi senza essere dichiarata, ostentando una forza d’animo e un coraggio che colpiscono animi abituati a vivere nel degrado e nell’odio. E i personaggi che interessano al regista non sono i militari dei due fronti, ma i civili “nemici” scoperti così vicini alla protagonista: l’ex militante comunista Fedir, che ospita e aiuta Sofia appena arrivata nel Donbass, e Sonya, alter ego della protagonista, madre di un militare della fazione separatista caduto in battaglia, che il dolore accomuna a Sofia annullando le divisioni politiche. Se in Mother of Apostles è inutile cercare analisi complesse sulle ragioni del conflitto, il film ha il merito di alternare vicende crudissime a toni di levità e umanità inattesi, ricordando come gli umili di ogni fazione rimangano sempre schiacciati dai giochi di potere dei grandi.

Se la fede in Mother of Apostles salva materialmente delle vite, in Radiograph of a Family dell’iraniana Firouzeh Khosrovani diventa tema che lacera e divide, dalla sfera più intima e personale fino alla dimensione collettiva. Il documentario, vincitore del festival IDFA di Amsterdam, è un’originalissima ricostruzione della vita familiare della regista e, attraverso essa, dell’evoluzione dell’Iran dagli anni Sessanta a dopo la rivoluzione degli ayatollah. Viene ripercorsa la storia d’amore tra il padre e la madre della Khosrovani, Hossein e Tayi, persone agli antipodi per provenienza, abitudini e mentalità: un connubio che si evolve e si spegne progressivamente, in parallelo con la trasformazione dell’Iran degli scià, paese laico e rivolto all’Occidente, nell’Iran della rivoluzione islamica.

Per mantenere un taglio documentaristico ma ravvivare la narrazione, la Khosrovani sceglie di raccontare l’impossibile unione tra i suoi genitori con un collage di video e fotografie, in parte realmente provenienti dall’archivio familiare, in parte tratti da materiale documentario generico dell’epoca, ambientato nei luoghi e nei periodi in cui la relazione si svolge. A narrare la storia sono le voci fuori campo dei due protagonisti, con dialoghi fittizi interpretati da due attori. Hossein, radiologo in via di specializzazione in Svizzera, incontra Tayi durante una vacanza a Teheran, sul finire degli anni Sessanta. Lui ha passato i quaranta, lei ha quasi vent’anni di meno. Ma non è tanto l’età a renderli diversi: Hossein è un uomo ricco di interessi e gioia di vivere, rappresenta in pieno l’Iran di Reza Pahlavi, il desiderio di allinearsi ai grandi paesi occidentali per valori, riferimenti culturali, benessere, progresso scientifico. Hossein in Svizzera è pienamente integrato, apprezza il vino e la buona cucina, adora sciare e ascoltare Bach e Chopin, partecipa spesso a feste con gli amici. Tayi viene da una famiglia di stretta osservanza islamica, è timida e pia, diffida dei valori occidentali. Sposa Hossein e lo segue in Svizzera: ma l’impatto è durissimo. Tayi si sente totalmente estranea a quel mondo, rifiuta svaghi e piaceri, rimane a casa sola. Hossein ne soffre, ma non troppo. Le tradizioni sociali e familiari sono dure a morire anche in Svizzera: gli va benissimo che lei non lavori, lo chiami “signore” e gli dia un figlio. Quando Tayi rimane incinta di Firouzeh, chiede a Hossein di poter tornare a Teheran. Hossein, riluttante, accetta per amore, ma da quel momento la vita della famiglia verrà stravolta.

Sono i primi anni Settanta, il periodo in cui il Paese vive i fermenti prerivoluzionari, con gli insegnamenti di Ali Shariati che preparano il terreno agli ayatollah e ottengono enorme favore popolare. Tayi, insieme a migliaia di donne iraniane, sente per la prima volta di avere un ruolo e un’identità: inizia a portare il velo, diviene un’attivista appassionata e, con l’avvento della rivoluzione, è chiamata a dirigere una scuola e aderisce a gruppi femminili paramilitari. Parallelamente, il suo rapporto con Hossein si rovescia: il marito è costretto a rinunciare alle sue abitudini, dalla casa vengono banditi alcool, feste, musica e ogni oggetto impuro. Firouzeh, bambina, assiste impotente al ribaltamento degli equilibri e dello stile di vita familiari, e cerca di salvare i frammenti delle vecchie foto della madre, distrutte perché la ritraevano senza velo.

Radiograph of a Family è un’opera intensa ed equilibrata. La Khosrovani intreccia con efficacia vicende private e collettive senza rinunciare a far trasparire la propria inclinazione verso il padre, così crudelmente emarginato dopo il ritorno in Iran; al contempo, non rinuncia ad analizzare come la rivoluzione, pur piegandole ai propri scopi e comprimendone le libertà, abbia saputo restituire identità e orgoglio a tante donne che, nell’Iran dello scià, si sentivano inutili, proprio come Tayi tra le feste e i piaceri della Svizzera. Un’incomprensione fatale, una crepa fra mondi, simboleggiata dalla radiografia della frattura rimediata da Tayi nel goffo tentativo, per compiacere Hossein, di seguirlo sugli sci.

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