CULTURA

I circoli virtuosi e viziosi connessi alle scritture e alle letture

Chi legge cose scritte ha bisogno che qualcuno prima, lui stesso o lei stessa oppure altri le abbiano scritte. Però, in realtà, impariamo prima a leggere che a scrivere qualcosa. La vista è uno dei cinque sensi, abbiamo appreso a “leggere” quanto visto prima che con le mani e con i sensi imparassimo a scrivere. Da decine di migliaia di anni per i sapiens, scrittura e lettura hanno iniziato a rincorrersi divenendo insieme una modalità di comunicazione e condivisione che va oltre la semplice visione di cose. E, tuttavia, è una dinamica diversa da quella dell’uovo e della gallina, sono atti e fenomeni molto differenti, non concatenati in modo biologico, connessi in tantissimi modi, perlopiù diacronicamente. La scrittura induce quantità e qualità di letture, la lettura interagisce non passivamente. Si possono determinare sia circoli virtuosi che circoli viziosi fra scritture e letture, fra scrittori e lettori. Conta la relazione accanto al contenuto, anche i comportamenti possono essere narrazioni.

Siamo abituati a raccontarci delle storie. Probabilmente già individui di altre specie umane lo facevano prima o contemporaneamente rispetto a noi, in vario modo. Noi abbiamo reso la faccenda molto sofisticata. La venuta al mondo si collega all’acquisizione e all’espressione di una pluralità di linguaggi, sopravviviamo e, a tempo dovuto, volendo, ci riproduciamo grazie soprattutto alle donne, in quanto siamo in grado di comunicare con altri sapiens come noi, uno alcuni tanti, a lungo tramite imitazione e apprendimento visivo. Verbalizzare (in una qualsiasi delle lingue umane sapienti, anche quelle estinte, anche quelle soltanto orali) ha significato cercare di comunicare ad altri un elemento vitale che ci riguarda oppure li riguarda, di trasferirci reciprocamente esperienze domande consigli. La lettura dei contesti sensoriali si è evoluta in opportunità di modificarli e scriverli. La scrittura ha comportato di mettere dati e storie anche per iscritto. La letteratura di leggerli (per alcuni) e tramandarli in vario modo, a partire dalla lingua e dalla cultura condivise.

Le questioni del ritardo cognitivo, dell’analfabetismo, della diseguale formazione scolastica, del disturbo psichico, dell’essere muti o ciechi (non metaforicamente) sono differenti. Si tratta di caratteri personali o di diritti negati; spesso, nel mondo contemporaneo, di un compito mancato dello Stato e delle pubbliche istituzioni, qualcosa cui talvolta affetti, tecnologie e farmaci consentono di ovviare, almeno parzialmente. Ovunque, tuttavia, si è sopravvissuto e si può sopravvivere senza leggere libri, tanto più senza scrivere fisicamente altri libri. Non si è necessariamente più fallaci e/o più infelici. Anche quell’individuo trova il modo di recepire e trasmettere storie nella sua comunità, di recepire processi mentali o flussi vocali altrui in una comune struttura comunicativa. Il nostro cervello si alimenta, comunque, di storie, di narrazioni e di “cultura”, anche quello travolto da dipendenze o follia, per singole fasi o a lungo.

Abbiamo richiamato più volte le funzioni del raccontarci storie fra gli individui della nostra specie: ci rendono probabilmente più empatici, più disposti a comprendere e ad ascoltare gli altri, più capaci di nominare i nostri sentimenti o le nostre angosce e di affrontarle, insomma più adatti alla vita comunitaria, più bravi a muoverci in società, per quanto la capacità di narrare e recepire riproducano diseguaglianze. Il cervello non si limita a percepire il mondo esterno riproducendolo fedelmente, come una sorta di fotografia tridimensionale, ma soprattutto nella nostra evoluzione cognitiva, si è abituato a ricostruisce la realtà solo dopo averla analizzata nelle sue parti componenti, ad aver cercato il prima e il dopo, ad aver valutato le opportunità rispetto agli altri. La convinzione che le nostre “percezioni” siano precise e fedeli è solo una pia illusione. Tendiamo a ricreare, ognuno nel nostro cervello, il mondo esterno in cui viviamo, a raccontarcelo come “storia”. Anche per questo sono scrittori anche quelli che non scrivono, siamo scrittori anche noi che non scriviamo fiction, siamo parzialmente ri-scrittori ognuno di noi lettori. La “realtà” ci si presenta, comunque, sotto forma di narrazione.

Siamo abituati a prendere talora troppo sul serio alcune delle storie che ci raccontiamo! La distinzione fra finzione e realtànon è risolutiva, nemmeno qui. Cibarsi di comunicazioni è costitutivo di ogni individuo della nostra specie sociale (lo stare insieme dei sapiens ha avuto un corredo di sensi e valori morali, spesso naturalmente arbitrari): sempre si tratta di “tradurre” pensieri in espressioni o gesti o parole. Poi ci sono le lingue costituite, all’inizio sempre e solo orali, pure nella loro evoluzione simbolica, storica e meticcia; poi da un certo punto ci sono state le letterature scritte di quelle lingue e si è dovuto iniziare saggiamente sapientemente a distinguere tra narrazione di fatti verificabili e narrazioni di vicende inventate. Qualunque fosse la forma letteraria, più o meno breve o poetica; qualunque fosse la conoscenza scientifica, più o meno condivisa; qualunque fosse la comprensibilità della lingua e dello scritto (pure tradotto); qualunque fosse la dimensione della scrittura, privata o collettiva o pubblica; chiunque e quanti fossero i lettori.

Abbiamo richiamato più volte pure la conseguente importanza delle parole usate nel raccontarci storie: sempre di una storia si tratta ma il linguaggio non è neutro, orale e scritto. Ogni linguaggio è relativo al contesto, anche i primi, segni numeri lettere prima di parole frasi grammatiche, comunque da vergare e visionare in una dinamica relazionale e sociale. Le parole producono effetti, non restano a fluttuare nell’aria. Il linguaggio può escludere invece che includere, dividere invece che unire (chi sta comunicando insieme), idealizzare invece che analizzare. Il linguaggio può essere stereotipato e riprodurre discriminazioni o diseguaglianze (magari come effetto al di là delle intenzioni). Il nostro linguaggio per diventare più attento dovrebbe considerare con rispetto noi emettitori e altri recettori, nella consapevolezza di doversi scambiare i ruoli, di dover cercare la verità anche nell’ascolto e nella diversa opinione, di mettere al centro il rispetto di ogni sapiens e la capacità comunicativa di ogni vita, in tutti i sensi.

Le parole scritte sono divenute il primo tramite della relazione codificata e circolare fra scrittura e lettura. Fin dai loro esordi, la scrittura e la relativa lettura erano riservate a pochi, hanno avuto anche la funzione (talora secondaria) di discriminare e opprimere meglio: chi sapeva scrivere, chi poteva scrivere, chi sapeva leggere, chi poteva leggere, i singoli e il gruppo di chi sapeva e poteva, interno alla diseguale comunità e al diseguale popolo nel loro insieme. A partire da 6.000 e 5.000 anni fa, in Mesopotamia o in Egitto (segnalo le acquisizioni culturali recenti sui geroglifici, dopo che circa due secoli fa fu scoperta la stele di Rosetta:), ecosistemi decisivi, arriva il tempo delle iscrizioni con frasi. Non si tratta più solo di lasciare segni significanti su superfici, ma lentamente di definire e strutturare proprio una scrittura condivisa (per quanto esclusiva di pochi), capace di sistematizza le attività umane, un corollario della stanzialità che ormai sempre più organizza, misura, diversifica e controlla la vita delle persone residenti. Non tutto è di facile ricostruzione e definitivamente acquisito, ci sono voluti secoli e decenni di studi, ricerche, interpretazioni. Le scritture e le letture in una certa lingua sono divenute segni identitari dei gruppi umani ben prima che si potesse parlare di letteratura scritta e stampata.

Sia la finzione sia la realtà, attraverso la scrittura, hanno sempre comunicato ai lettori una pluralità di conoscenze ed emozioni, per esempio quelle delle dinamiche violente e oppressive di alcuni sapiens verso altri, quell’ambiguità noir fra Bene e Male che appare un altro elemento costitutivo di ogni individuo della nostra specie morale (una delle tante specie, tutte, che vivono in contesti naturali a-morali). Classificare la letteratura con una più netta separazione della fiction dal resto e attraverso i generi letterari è un’opzione molto più recente, certo dopo la stampa, qualche secolo forse. E non cambia la sostanza: i generi sono materia aleatoria e fluttuante, indubbiamente utile quando si hanno a disposizione innumerevoli oggetti letterari; talvolta prescelti da chi scrive, talvolta da chi legge, talvolta da chi li vende o presenta; comunque spesso con una certa prevalenza della dimensione editoriale commerciale o di una comparazione storicamente determinata. Nel corso del tempo gli interessi degli editori e i consumi dei lettori hanno stimolato scritture strettamente commerciali, vedremo cosa accadrà con l’intelligenza artificiale.

Chi legge un libro trova quasi sempre il proprio modo per recensirlo. Lo commenta con amici e altri affetti, si porta cartaceo o tablet in luoghi di attesa, ne riparla con l’eventuale libraio, scrive opinioni in merito sui social. Un tempo era solo il fisico passaparola a determinare qualche volta un successo totalmente estraneo alle pubblicità istituzionali (comunicazione editoriale, pubblicitaria o televisiva), ora i canali sono sempre di più, talora gestiti professionalmente talora più spontanei. Siamo, comunque, lettori parassiti della scrittura degli scrittori. Cerchiamo di educarci ed educare a leggere con cognizione di causa, sempre riflettendo sul piacere che ne deriva. Sappiamo che il libro di carta era e resta il preferito dei lettori. Meglio sapere prima, dedicandoci pur sempre poco tempo, “generi” argomenti stili contesti, qualcosa che c’è sia prima che dopo il leggere quel preciso libro, nelle librerie di casa o con un prestito in biblioteca.

Serve certamente, quindi, una maggiore “educazione” alla lettura, utile anche alla scrittura per gli altri, intesi come pubblico indistinto. Evviva le librerie che filtrano suggeriscono indirizzano, senza piegarsi solo alla monetizzazione di collocazioni o spazi o scaffali: un conto è la singola copia del libro di una piccola casa editrice che arriva talora dalla distribuzione (anch’essa molto poco oggettiva), un conto le centinaia di copie del romanzo di un grande editore, lanciato da paginone e comparse ovunque. Evviva i siti e i blog che mettono quanto più possibile nello stesso schema informativo: luoghi e date, le prime pagine della trama, connessioni culturali e letterarie del romanzo e dell’autore, limitando al minimo stroncature polemiche ed enfasi poetiche. Evviva i festival e i premi che non si limitano alle presentazioni clamorose, mettono in circolo autori meno conosciuti, consentono una chiacchierata collettiva più personale, stimolano scrittori e scrittrici a discutere fra di loro e non solo delle loro opere, inseriscono retrospettive culturali e tematiche. Serve forse una conseguente rieducazione alla scrittura, un controllo dello stesso scrittore sulle proprie quantità e qualità, sulla propria serialità e innovatività, accettando suggerimenti non solo legati al mercato.

Una sana rieducazione ha valore socio-sanitario. La bibliomalattia, con varie bibliossessioni e bibliomanie (più o meno giovanili, letterariamente descritte da almeno due secoli), è abbastanza contigua alla biblioterapia (per altre malattie): un po’ di misura e umiltà, autocontrollo, ironia e autoironia non fanno mai male. Visto che viviamo in contesti morali, diamoci una regolata sia con i diritti che con i doveri, sia con le parole che con i testi. Ciò vale soprattutto per il genere letterario più scritto e letto nel mondo (per i soliti circoli virtuosi e viziosi), che, nell’ultimo secolo, è quello che va sotto il cappello del crime, o giallo noir mystery thriller policier kriminal. Da qualche decennio vi è stata una crescente enorme pervasività proprio del noir, emerso mezzo secolo fa come positivo sconquasso provocati al giallo classico: far emergere gli intrecci criminali nella gestione dei poteri pubblici e privati di una determinata comunità umana e di un determinato assetto sociale. Poi, certo, hanno pure sempre contato in ogni angolatura del genere i protagonisti appropriati, lo stile, i sapori, le atmosfere, l’irresolutezza del finale e l’incertezza della giustizia, tuttavia la spinta propulsiva di una lunga fase del noir, probabilmente irripetibile, era la denuncia motivata della parte criminale dello stato di cose presenti.

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