SOCIETÀ
Il clamoroso no del Cile alla riforma della Costituzione del dittatore Pinochet
I sostenitori del no alla riforma costituzionale festeggiano nelle piazze della capitale cilena. Foto: Reuters
Possibile che la costituzione imposta nel 1980 dal dittatore Augusto Pinochet sia considerata “migliore” di quella progressista elaborata da un’Assemblea costituente appositamente eletta, sostenuta dal neo presidente del Cile Gabriel Boric e clamorosamente bocciata domenica scorsa dagli elettori cileni? Il “rechazo”, il rifiuto, ha ottenuto un poderoso 62% dei voti: segno che il no è arrivato anche da ampi settori che proprio per Boric avevano votato lo scorso dicembre, un’elezione giustamente definita storica, che aveva portato, dopo Salvador Allende, un presidente di sinistra, di appena 36 anni, ex leader del Movimento studentesco, a salire al Palacio de la Moneda. La nuova Carta avrebbe stabilito una serie di punti fermi imprescindibili per l’azione dell’attuale governo: come il riconoscimento dei popoli indigeni e la restituzione delle “loro” terre (con un sistema giudiziario distinto da quello nazionale), il rafforzamento dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, la garanzia del diritto di sciopero, l’abolizione della disparità salariale, il diritto all’aborto, la parità di genere nelle istituzioni pubbliche e private (almeno il 50% delle donne nei consigli di amministrazione), il riconoscimento del diritto universale all’acqua (dunque rendendone illegale la privatizzazione), il riconoscimento del diritto della natura a essere protetta e rispettata. Fino al tema delle miniere e degli idrocarburi, sui quali lo Stato mantiene un dominio “assoluto, esclusivo, inalienabile e imprescrittibile”, con l’obbligo per le imprese concessionarie a ridurre gli effetti nocivi sul territorio e riparare eventuali danni. Istanze sociali, riduzione delle disuguaglianze, difesa dei diritti e dell’ambiente: eppure ha stravinto il no. Una brusca frenata sulla strada che porta al cambiamento promesso.
Dalla proprietà privata all’aborto: l’arma della disinformazione
Ma cos’è cambiato dal referendum dell’ottobre 2020, quando l’80% dei votanti (sulla scia delle proteste popolari) rispose sì all’elaborazione di una nuova Costituzione? Le analisi abbondano in queste ore, e non c’è un singolo fattore che prevalga o che giustifichi da solo l’esito del referendum. C’è chi sostiene che l’Assemblea Costituente (155 membri, la metà donne) abbia poco ascoltato le istanze di alcuni partiti, soprattutto quelli al di fuori dall’area di governo, che si sono sentiti esclusi dal processo decisionale e quindi in qualche maniera legittimati ad alimentare la campagna per il no. A sollevare dubbi, a spargere fumo, a cavalcare la confusione che la stessa complessità del testo sollevava. Con frequenti e deplorevoli episodi di disinformazione, provenienti soprattutto dal fronte del “rechazo”, con fake news che rimbalzavano sui social (da Twitter a Meta, a TikTok), soprattutto sul tema degli espropri (“un indigeno potrà rivendicare qualsiasi terra in qualsiasi parte del territorio nazionale”), della proprietà privata (“se hai due case te ne porteranno via una”) e dell’aborto (“sarà possibile interrompere la gravidanza fino al nono mese”). Una campagna finanziata, evidentemente, da chi temeva l’entrata in vigore della nuova carta. Con almeno 36 enti non soggetti a controllo che hanno speso 116 milioni di dollari per finanziare sui social la campagna per il no. «Il problema è che la disinformazione viene utilizzata non soltanto per generare confusione sulla proposta, ma anche come strumento di attacco», sostiene Sebastián Valenzuela, docente di teoria della comunicazione alla Pontificia Universidad Católica de Chile. Alla vigilia del voto, sei membri del Congresso degli Stati Uniti avevano sollevato preoccupazioni sulla campagna di disinformazione in atto in Cile, inviando una lettera di richiamo ai direttori delle piattaforme social.
Ma ci sono anche altre ragioni per spiegare la clamorosa bocciatura alle urne della nuova Carta cilena. C’è chi ha dato la colpa al voto obbligatorio (con multe per chi non si è presentato ai seggi comprese tra i 35 e i 200 dollari Usa) che avrebbe chiamato al voto anche la parte dell’elettorato meno attenta e informata. Chi ha criticato il preambolo del testo, che dichiarava il Cile “uno Stato sociale e democratico di diritto, plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico”, sostenendo che quel “plurinazionale” legittimava di fatto le divisioni all’interno del Paese, promuovendo i popoli originari, gli indigeni, addirittura come “gruppo privilegiato” (anche in virtù del sistema giudiziario separato). Mentre altri analisti hanno invece sostenuto che in quel testo, così complesso (388 articoli, non tutti di semplice lettura, l’Economist non era stato tenero lo scorso luglio), così atteso, c’era “troppo”: troppi temi, troppe istanze, troppa presenza dello Stato, al punto da far temere perfino l’instaurazione di un regime dittatoriale. Come ha scritto Pierre Haski per France Inter, ripreso da Internazionale: «Il partito del “rechazo” è una coalizione eterogenea di forze, ognuna contraria a una parte della nuova costituzione. I delegati della costituente non hanno saputo fare compromessi, e oggi ne pagano le conseguenze».
Si ricomincia da zero
Quindi la risposta alla domanda iniziale è decisamente no: i cileni non vogliono “difendere” la Carta di Pinochet (che era stata già bocciata nel 2020): solo ne vogliono una elaborata con maggiore equilibrio, condivisa, inclusiva. Gabriel Boric ha incassato la sconfitta (perché comunque di sconfitta si tratta) a viso aperto, in un discorso tv alla nazione, in diretta, poco dopo la chiusura del voto: «Oggi il popolo cileno ha parlato e lo ha fatto ad alta voce e in modo chiaro. Ci ha dato due messaggi: il primo è che ama e apprezza la democrazia, che confida in essa per superare le differenze e andare avanti. Il secondo messaggio è che non era soddisfatto della proposta di Costituzione che la Convenzione ha presentato al Cile. E quindi ha deciso di bocciarla chiaramente alle urne». Già alla metà di luglio, quando i sondaggi registravano un brusco calo dei consensi alla proposta della Costituente, Boric aveva annunciato che in caso di vittoria del “rechazo” ci sarebbe stato un nuovo processo costituente. Detto fatto: la prima mossa è stata convocare i rappresentanti di tutti i partiti a La Moneda nel tentativo di ricostruire la sintonia perduta. Poi la parola passerà di nuovo al Parlamento, che dovrà nominare una nuova Assemblea Costituente, che a sua volta dovrà stilare un nuovo testo: un anno non basterà, il prossimo referendum costituzionale non si celebrerà prima del 2024. Il presidente della Camera, Raúl Soto (PPD, Partito per la Democrazia, socialdemocratico), ha ribadito il suo appello per un patto trasversale per la riunificazione del Cile: «Un accordo che ci consenta di gettare le basi di una nuova tabella di marcia per il cambiamento costituzionale». Luis Garrido-Vergara, dottore in Sociologia e professore all'Università del Cile, la commenta così: «Il governo deve ora definire il suo programma di riforme, stabilire un’agenda, con le sue priorità. E vedere se c'è davvero la volontà politica di generare un nuovo processo costituzionale».
Inflazione, povertà, violenza
Il “mea culpa” del presidente Boric è palese: «Dobbiamo ascoltare la voce della gente. Non dimentichiamo perché siamo arrivati a questo punto: quel malessere è ancora latente e non possiamo ignorarlo. La decisione dei cittadini esige che le nostre istituzioni e gli attori politici lavorino di più, con più dialogo e rispetto fino a quando non arriveremo a una proposta che ci rappresenti tutti, come una nazione. Il massimalismo, la violenza e l’intolleranza devono essere assolutamente lasciati da parte». Dunque dialogo, ma non soltanto. Anche perché, a dirla tutta, la nuova Costituzione non è l’unico problema che il Cile si trova oggi ad affrontare, né il più grave. C’è l’inflazione mai così alta (l’aumento su base annua supera il 13%), con prezzi alle stelle praticamente in ogni settore, dagli alimentari (aumento record del 20%) ai carburanti. Aumenta di conseguenza la fame, la povertà (gli ultimi dati, non aggiornati e quindi sicuramente sottostimati, indicano in circa due milioni e mezzo di poveri, circa un milione dei quali in situazione di “estrema povertà”). C’è la proposta all’esame del Senato di un Reddito Familiare di Emergenza (IFE) che potrebbe dare sollievo alla parte più vulnerabile della popolazione. C’è una pandemia ancora da sconfiggere, una violenza sociale in drastico aumento, con manifestazioni che spesso si trasformano in scontri con la polizia (il fratello del presidente Boric, Simon, giornalista e capo del Gabinetto del Rettore dell'Università del Cile, è stato vittima di un’aggressionealla vigilia del voto, dopo aver tentato di evitare un saccheggio in un locale).
Per il governo la bocciatura della Costituzione è uno sgradevole inciampo, non una catastrofe. La ferita è rimarginabile, anche se l’esecutivo dovrà riuscire a riconquistare autorevolezza e affidabilità. Lo stesso Boric dovrà dimostrare non soltanto a parole di essere “altro”, di non essere ostaggio delle vecchie élite così duramente contestate da lui stesso ai tempi delle rivolte studentesche. Di riuscire a dare un volto e un “passo” a un nuovo modo di fare politica d’innovazione, d’inclusione sociale. Lo chiedono i cileni, ma in realtà lo chiede tutto il Sudamerica: il Cile può essere considerato a ragione, ancora oggi, un laboratorio per il futuro.