SOCIETÀ

Congresso sulla famiglia: una pericolosa deriva per la società

La parola giusta è backlash – un sostantivo composto, difficile da tradurre in italiano perché in inglese ha più accezioni: un significato legato alla meccanica, per cui può riferirsi a uno scatto all’indietro, un rinculo; e un significato figurato di reazione violenta in risposta a qualcosa o qualcuno: una specie di frustata (lash) di ritorno (back), un colpo furioso.

Da qualche tempo, a livello locale, nazionale e internazionale, stiamo assistendo a un backlash da parte di forze conservatrici che mettono in discussione i diritti acquisiti dalle donne: si tratta di tentativi di riproposta e legittimazione di modelli relazionali definiti in modo esplicito dalla ri-subordinazione delle donne e dall’annullamento dei margini di libertà nella gestione del proprio corpo (si veda per esempio la rimessa in discussione della Legge 194), che negli ultimi decenni le donne si sono conquistate. Questi tentativi rappresentano una forma di risposta reazionaria di segmenti della classe politica o di gruppi di potere che, nel quadro dell’attuale crisi economica e sociale, trovano ampi spazi di radicamento, veicolando il disagio diffuso di ampi settori sociali su questioni che nulla hanno a che fare con le dinamiche reali del vivere sociale.

La donna, riproposta come figura garante di un patto sociale fondamentale, quale è la famiglia nelle sua qualificazione tradizionale, viene a essere identificata come il soggetto a cui affidare interamente la responsabilità della riproduzione sociale degli individui attraverso un controllo della sua vita e del suo corpo, che necessariamente passano attraverso una messa in discussione complessiva del superamento della dicotomia pubblico/privato.

Questo non è un momento felice per i diritti delle donne: le motivazioni portate a giustificazione di alcune recenti sentenze nelle aule dei tribunali italiani, nonché interventi legislativi quali il disegno di legge Pillon, dovrebbero suonare come campanelli di allarme. 

E non è un momento propizio nemmeno per chi non si riconosce in un modello culturale eteronormativo: l’omofobia e la transfobia sono in aumento, gli interventi legislativi volti a includere chi non rientra nella logica binaria del maschile e del femminile stagnano.

A livello globale si stanno diffondendo lobby di pressione illiberali, fra cui il cosiddetto Congresso Mondiale delle Famiglie (dall'inglese World Congress of Families) che quest’anno si tiene a Verona dal 29 al 31 marzo: obiettivo principale del WCF è unificare, a livello internazionale, realtà conservatrici ed estremiste su istanze comuni quali la protezione/promozione della famiglia ‘naturale’ e la criminalizzazione dell'omosessualità.

Contro il progetto del WCF 2019, e contro il sostegno istituzionale all’iniziativa dato dal ministro per la Famiglia e le Disabilità, dal ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e dal Vice-premier del governo italiano (il presidente del Consiglio dei Ministri ha ritirato in extremis l’avallo governativo), si è espressa apertamente l’Università degli Studi di Verona, rifiutando il patrocinio alla manifestazione che si tiene nella loro città. Con l’ateneo veronese si è mobilitata anche un’ampia rete di centri universitari, gruppi di ricerca e associazioni che si occupano di studi di genere, femministi e sulla sessualità. Il Centro di Ateneo ‘Elena Cornaro’ per i saperi, le culture e le politiche di genere dell’Università di Padova si è unito alla voce di quante/i stanno esprimendo preoccupazione per l’erosione di libertà conquistate, che mette in pericolo la fruizione paritaria dei diritti da parte di donne e uomini e si riflette negativamente anche sul lavoro scientifico e accademico che molte e molti di noi stanno facendo. È necessario essere vigili e coscienti delle implicazioni del backlash a cui stiamo assistendo e che il WCF rappresenta e diffonde. 

Come istituzioni scientifiche, le università italiane – e in particolare l’Università di Padova, con la sua lunga storia di difesa dei diritti umani (il nostro motto è Universa Universis Patavina Libertas) – non possono che esprimere contrarietà nei confronti di politiche illiberali che minacciano, tra l’altro, la libertà di ricerca e di insegnamento. Indicativo è l’esempio dell’Ungheria di Viktor Orbán, di cui ha parlato la collega Monica Jitareanu della Central European University, in occasione del convegno su “Universities promoting academic freedom” che abbiamo ospitato a Padova lo scorso 19 febbraio. Jitareanu ha presentato una relazione dal titolo “Who is afraid of gender studies? The state of academic freedom in Hungary” e ha spiegato assai bene le modalità e le procedure attraverso cui il governo ungherese è intervenuto per marginalizzare ed eliminare gli studi di genere da scuole e università, con l’assurda giustificazione che “non interessano a nessuno”. Questa è una delle conseguenze concrete e dannose dell’uso ideologico di concetti che un’iniziativa anti-scientifica come il 13° World Congress of Families pratica in modo deliberato, facendo riferimento strumentale a una “teoria del gender” o una “ideologia gender” che in realtà non esistono. 

Negli anni Padova ha dato, e sta dando, un contributo significativo alla costruzione di saperi su genere, sessualità e femminismo, alla promozione di una cultura inclusiva e all’analisi di politiche e pratiche volte a ridurre discriminazioni e squilibri di genere. Il nuovo Centro ‘Elena Cornaro’ si inserisce in questa tradizione e la amplia, in una prospettiva che apre ad altri saperi disciplinari e altri contesti, rappresentati da collaborazioni con realtà internazionali e con espressioni della società civile, a partire da un lavoro scientifico rigoroso. 

Siamo convinte che i programmi educativi contro le discriminazioni non debbano essere considerati ‘anomalie’ del sistema scolastico e universitario, bensì occasioni di sviluppo e trasmissione di un pensiero libero, laico, pluralistico e di una cultura del rispetto. Abbiamo verificato nella nostra realtà – ma anche partecipando a una rete UNESCO che promuove la parità di genere attraverso programmi educativi a livello globale, e tenendo conto della priorità riservata alla parità di genere dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite – che c’è bisogno di più impegno nelle attività formative e che è utile inserire una prospettiva di genere come trasversale agli insegnamenti accademici. Da qui nasce l’idea di proporre un general course sui saperi di genere, che nel contesto attuale dovrebbe diventare una priorità non solo per promuovere una comprensione dei saperi capace di molteplicità, ma anche per mandare un segnale esplicito rispetto ai tentativi di rimettere in discussione conoscenze necessarie e diritti acquisiti.

Più in generale, e per essere concreti a proposito della promozione ideale della famiglia ‘naturale’ da parte del WCF, va osservato che nel contesto italiano esiste un forte contrasto tra l'enfasi posta sulla costruzione (ideologica) della “famiglia tradizionale” e la condizione fattuale di molte famiglie e di molti genitori. Nell'ultimo rapporto dell'Ispettorato nazionale del lavoro si evidenzia che nel 2017 ci sono state ben 38.750 dimissioni volontarie, di cui 30.672 sono di lavoratrici madri. Oltre il 55% delle dimissioni è motivato dall'incompatibilità a bilanciare tempi di lavoro e necessità familiari. In Italia, la retorica maternalista e familista si scontra dunque con la perdurante scarsità di servizi per la prima infanzia a sostegno della coppia lavoratrice ma anche di genitori soli (secondo Istat nel biennio 2015-2016, si stima che in media i nuclei familiari monogenitore in cui è presente almeno un figlio minore siano pari a 1 milione 34 mila, il 15,8% del totale dei nuclei con figli minori) e con la rigidità dell'organizzazione del lavoro interna alle imprese. Lo stesso rapporto pone in luce che nel 2017, a fronte di 2.228 richieste, il part time e altre misure di flessibilità oraria sono stati concessi soltanto in 630 casi (quasi 1/3). Permane dunque uno sbilanciamento di genere all'interno della coppia lavoratrice, poiché è ancora sulla donna che grava il maggior onere del lavoro domestico e di cura, e l'Italia continua a non investire nella prima infanzia e nelle politiche di bilanciamento vita-lavoro. 

Queste sono le realtà da affrontare, che vanno studiate e su cui è necessario intervenire: bisogna tenerne conto, ed è sempre più utile guardare al futuro che al passato, le cui rappresentazioni odierne rischiano di riportarci indietro e di soffocare sul nascere qualunque istanza di cambiamento.

Centro di Ateneo ‘Elena Cornaro’ per il saperi, le culture, e le politiche di genere

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