La “scatola che ha cambiato il mondo” adesso lo sta sconvolgendo. Parliamo dei container, protagonisti dalla seconda metà del 2020 di una impennata dei prezzi e una specie di grande carestia, “mai vista prima” a detta dei principali operatori. Uno sguardo alla tabella dei noli marittimi, elaborata dall’Aiom (agenzia imprenditoriale degli operatori marittimi di Trieste) dà un primo quadro della situazione. Nella media del 2019, spedire un container di 40 piedi da Shangai a Los Angeles costava 1.581 dollari; nel 2020, la media è stata di 2.760 dollari. Guardando a casa nostra: il costo dello stesso container, da Shangai a Genova, è balzato da 1.680 a 2.741 dollari (più 63%). L’aumento è generalizzato. E i numeri medi dell’anno non danno neanche la portata reale di quel che sta succedendo adesso, visto che l’impennata c’è stata solo nella seconda metà dell’anno, dopo il congelamento dei traffici mondiali dovuto alla pandemia e alla ripresa della produzione in Cina. Infatti, se guardiamo ai dati di gennaio, gli incrementi sono stellari: più 335% sulla rotta Shangai-Rotterdam, più 227% su quella Shangai-Genova, “solo” più 164% su quella Shangai-Los Angeles.
Prima di cercare di capire cosa sta succedendo, va fatto un passo indietro.
L’aumento dei prezzi dei noli dei container non è un dettaglio tecnico, che interessa un settore dell’economia e i tecnici dei trasporti. Inventati nel 1956 – nell’aprile di quell’anno il primo viaggio di una petroliera riadattata, con a bordo 58 “scatole” impilate -, i container al volgere del secolo sono diventati il motore e il simbolo dell’era del commercio globalizzato. Le “multinazionali del mare”, nel titolo di un libro di Sergio Bologna, che sottolinea il ruolo decisivo della logistica come supporto materiale della globalizzazione. Della cui salute diventano, inevitabilmente, il termometro. Nel 2009, nel pieno di quella che allora era la più grave crisi dal dopoguerra, i giganti portacontainer vuoti restavano ormeggiati nei porti, come fantasmi in disarmo, e i prezzi dall’Asia all’Italia per un container erano arrivati a 2-300 euro. Adesso siamo al fenomeno opposto, a una febbre stellare: segnale di ripresa dell’economia? Non necessariamente.
“ È così che comincia il caos
Così dice un articolo del New York Times dedicato al traffico marittimo mondiale, che si apre con la descrizione di due dozzine di portacontainer ferme nel porto di Los Angeles, in attesa di scaricare cyclette, prodotti elettronici e altri beni di consumo, il racconto degli agricoltori del Kansas che aspettano di poter imbarcare la soia e le immagini di magazzini cinesi pieni di merci bloccate, da spedire negli Usa. Il fatto è che l’economia-mondo si è bloccata, come spenta da un clic, a inizio del 2020; e farla ripartire non è così facile. Qualcuno parla di una bolla speculativa, che si è innestata appena i traffici sono ripresi. Ma lo stesso bollettino dell’Aiom racconta che una denuncia degli spedizionieri all’antitrust europeo si è conclusa con un niente di fatto, non essendo stati ravvisati per ora comportamenti scorretti. Il fatto è che, nella parte del mondo che deve spedire (l’Asia) mancano i container vuoti. Che invece stanno ammassati nei porti occidentali. Perché?
I racconti degli operatori dicono che le catene dell’offerta sono saltate. I consumi si sono riadattati all’era della pandemia e alla vita dentro casa. Allo stesso tempo, l’organizzazione del lavoro nei porti ha risentito delle restrizioni da lockdown. Mentre la produzione in tutto il mondo sta facendo i conti con la gravissima recessione indotta dalla stessa pandemia: è vero che tanti consumi crescono, ma per altri manca la domanda, poiché la gente è più povera.
Tutto ciò ha mandato in tilt gli algoritmi che pianificavano i flussi, che in tempi normali facevano viaggiare quelle scatole sempre piene, per ridurre i costi e massimizzare i profitti. È come se la catena di montaggio della fabbrica-mondo si fosse inceppata, facendo saltare tutti gli equilibri. “C’è un enorme numero di container fermi nel mezzo del nulla, in Australia, nell’Europa occidentale, negli Stati Uniti”, ha detto il capo della Hong Kong Liner Association al Financial Times, parlando di “una tempesta perfetta che impedisce ai container di tornare in Asia”. Fabbriche che chiudono per mancanza di materie prime e semilavorati; prezzi che si impennano per l’aumento della componente di costo dei trasporti; ritardi negli approvvigionamenti e impossibilità di fare previsioni. Le prossime settimane diranno se la malattia dei container è solo una nuova febbre di crescita, dopo lo stop forzato; o se, ancora una volta, dentro quelle scatole potremo leggere lo sviluppo dell’economia mondiale, e le sue nuove direzioni dopo lo choc sanitario, economico e sociale del 2020.