SCIENZA E RICERCA

Coronavirus: scenari, numeri e il dietrofront inglese

A quache giorno dalle dichiarazioni shock del premier britannico Boris Johnson che, senza molti giri di parole, aveva detto ai cittadini del Regno Unito di prepararsi “a perdere molti cari” e alle misure di contenimento della pandemia di coronavirus che si stanno mettendo in atto in Europa aveva sostenuto di preferire il raggiungimento di un’immunità di gregge, è arrivato un dietrofront ufficiale che si è concretizzato nell'adozione di misure simili a quelle italiane. La retromarcia è stata graduale ma, in poco più di una settimana, ha portato il primo ministro inglese a passare da una fase in cui si invitava la popolazione ad evitare luoghi affollati e spostamenti non necessari, ma venivano di fatto lasciate aperte tutte le attività, ad un successivo passaggio in cui è stata decisa la chiusura delle scuole per un periodo indeterminato ed è stata imposta la serrata di pub, ristoranti, club, cinema, teatri, palestre e piscine. Fino al vero e proprio lockdown: il blocco totale del Regno Unito, annunciato il 23 marzo in un discorso alla nazione. E così, se prima la linea di Boris Johnson era quella di lasciare circolare il virus obbligando le persone più vulnerabili, individuate negli ultrasettantenni e in coloro che soffrono di patologie pregresse, a non uscire di casa per mesi, adesso è arrivata la svolta, motivata anche dai numeri dei posti disponibili nelle terapie intensive.

 

Il video in cui Boris Johnson annuncia il blocco totale del Regno Unito per contrastare la diffusione del coronavirus

Ignorare la minaccia del coronavirus e lasciar proseguire un'espansione incontrollata dei contagi avrebbe delle conseguenze drammatiche in termini di morti e di impatto sui sistemi sanitari. Lo ha evidenziato in modo molto chiaro uno studio dell'Imperial College di Londra che ha calcolato i rischi di un approccio morbido basato su misure di contenimento assenti o insufficienti: una risposta blanda, finalizzata a lasciar circolare il virus tentando solo di isolare le persone più fragili per proteggerle, provocherebbe circa 260 mila morti nel Regno Unito e oltre un milione in America. E' proprio l'osservazione di questi numeri che avrebbe convinto della pericolosità di questa strategia anche i leader politici più refrattari all'introduzione di misure restrittive, come Boris Johnson o Donald Trump. Lo studio, firmato dall'epidemiologo Neil Ferguson, è stato condotto sulla base dei dati relativi al Regno Unito e agli Stati Uniti, ma gli esperti hanno chiarito che l'analisi può essere un riferimento anche per gli altri Paesi che stanno fronteggiando l'emergenza. 

Per approfondire gli scenari emersi dallo studio realizzato dai ricercatori dell'Imperial College di Londra abbiamo intervistato Paolo Vineis, professore ordinario di epidemiologia ambientale nello stesso ateneo britannico, punto di riferimento per la ricerca internazionale.

 

Intervista al professor Paolo Vineis, epidemiologo dell'Imperial College di Londra. Servizio di Barbara Paknazar

Nei giorni scorsi gli esperti del governo britannico avevano fatto trapelare l'intenzione di non puntare a limitare il contagio, con l'obiettivo di arrivare così a "un'immunità di gregge". Una scelta che molti scienziati hanno definito irresponsabile. Qual è la sua opinione al riguardo?

Vorrei innanzitutto chiarire in cosa consistono i modelli che vengono periodicamente rilasciati dai miei colleghi dell’Imperial College. Sono modelli matematici che si basano sui dati a disposizione in un determinato momento. Tre settimane fa era già stato rilasciato un documento, realizzato da Neil Ferguson e altri colleghi, che si riferiva all’Inghilterra e che non poteva che riferirsi ai dati cinesi che erano gli unici allora disponibili. Inoltre gli studi di questi ricercatori fanno riferimento anche alla Spagnola del 1918 visto che si tratta di un'esperienza che ha fornito alcune delle assunzioni che stanno dietro al modello. Tre settimane fa Neil Ferguson e i suoi colleghi avevano presentato quello che viene chiamato il “worst case scenario”, vale a dire la situazione peggiore che possiamo immaginare, in cui non vi sia alcun contenimento dell’epidemia. E poi avevano prospettato diversi tipi di misure che andavano dal distanziamento sociale, alla quarantena, all’isolamento dei positivi ed eventualmente anche la chiusura delle scuole. Boris Johnson ha inizialmente proposto una prima strategia che era chiamata di mitigazione, cioè uno scenario più blando che avrebbe implicato un numero molto elevato di morti e che mirava a raggiungere quella che loro chiamavano immunità di gregge. In realtà l’immunità di gregge è quella che si ottiene con le vaccinazioni: praticamente non abbiamo esperienza di un’immunità di gregge basata sulla diffusione spontanea di un’epidemia. Quindi lo scenario era quello di un’infezione che avrebbe raggiunto il 60% della popolazione con un numero molto elevato di morti: il prezzo del raggiungimento dell’immunità di gregge era estremamente alto. Poi Boris Johnson ha fatto marcia indietro, probabilmente influenzato dai modelli di Neil Ferguson.

l’immunità di gregge è quella che si ottiene con le vaccinazioni: praticamente non abbiamo esperienza di un’immunità di gregge basata sulla diffusione spontanea di un’epidemia

La seconda ipotesi, oltre alla mitigazione, è quella che viene chiamata soppressione e include misure molto più drastiche: sostanzialmente quelle messe in atto a Wuhan e più blandamente in questo momento in Italia. Tra i diversi approcci ci sono delle sfumature: per esempio chiudere tutto, chiudere anche le fabbriche oppure no. Poi a Wuhan in particolare è stato attuato il provvedimento della quarantena in strutture appositamente destinate a isolare i casi positivi e i loro contatti. Misura veramente drastica perché implica una grande organizzazione e, per certi versi, addirittura una militarizzazione. Si sta discutendo di un approccio “alla Wuhan”, per esempio circolano le diapositive di un ricercatore cinese di Harvard il quale sostiene che la Cina attualmente non ha nuovi casi perché ha attuato misure così radicali. Parlando a titolo personale io non credo che queste misure siano attuabili in Italia e negli altri Paesi occidentali perché richiedono un dispendio di energie e un’organizzazione che noi non possediamo. Devo dire che alcune incertezze decisionali sono legate anche alla difficoltà di capire cosa ci dicono i modelli, quindi si tratta di affinarli man mano che i dati arrivano. Come accennavo prima, i modelli iniziali di Neil Ferguson erano basati su esperienze precedenti come la Spagnola del 1918 - nel corso della quale erano state chiuse alcune città e alcuni villaggi negli Stati Uniti, quindi era stato attuato un approccio simile alla zona rossa di Codogno - e poi tutti i dati che sono arrivati dalla Cina.

Adesso Ferguson e il suo gruppo stanno cercando di incorporare anche i dati che arrivano dall’Italia e quelli che arriveranno via via dall’Inghilterra e da altri Paesi. Le stime quindi si affinano sulla base dei modelli, anche per quanto riguarda il raggiungimento del famoso picco, e queste stime servono non soltanto a prevedere i morti ma servono anche a capire qual è l’impatto delle diverse misure - che si tratti di mitigazione o di soppressione - e servono anche a valutare il fabbisogno di letti in terapia intensiva. E forse questo è l’aspetto più difficile e più tragico perché, nei Paesi di cui stiamo parlando e soprattutto in Inghilterra, questo fabbisogno eccede di gran lunga il numero di letti esistenti e Neil Ferguson, a seconda dei modelli che utilizza, arriva a stimare che il fabbisogno di terapie intensive supera di otto volte o addirittura di trenta volte i posti disponibili nelle strutture esistenti. Quindi i modelli servono a tutto questo, poi spetta ai politici decidere e i politici non possono che basarsi su queste informazioni. Quello che sta accadendo in Inghilterra mi sembra sia un progressivo irrigidimento, forse un po’ tardivo, delle misure che vengono prese. La mia sensazione è che tutti si stanno orientando verso la soluzione assunta, secondo me abbastanza tempestivamente, in Italia e quindi c’è un progressivo allineamento. Ora si discute se si possa o no ricorrere a misure più drastiche come la quarantena centralizzata che però a me personalmente sembra irrealistica per motivi logistici e organizzativi.

Quindi sulla base dello studio condotto da Neil Ferguson e dai suoi colleghi quale direzione dovrebbero prendere i leader politici dei diversi Paesi? Quali sono le soluzioni consigliabili?

Io credo che l’Italia stia facendo le cose giuste in questo momento. C’è un problema urgente che è quello di testare tutto il personale sanitario, tutte le categorie professionali che sono a contatto con il pubblico, quindi per esempio il personale dei supermercati. Si tratta di identificare delle categorie per limitare il contagio da parte dei positivi asintomatici perché, come sappiamo, circa l’80% dei positivi sono asintomatici e sono un’importante fonte di contagio. Quindi bisogna prima di tutto identificare queste persone che sono a contatto con il pubblico e che, al momento, non possono ovviamente stare a casa perché i sanitari sono ovviamente fondamentali, ma anche il personale dei supermercati svolge un ruolo indispensabile. Io credo che la priorità immediata sia quella di garantire che vengano testate tutte le persone che appartengono a queste categorie per evitare il contagio da parte degli asintomatici. Una seconda misura, che riguarda più il versante della ricerca, è trovare dei metodi più rapidi per testare le persone e ci sono alcune discussioni in corso, compresi nuovi test anticorpali o comunque metodi a più alto rendimento per testare la presenza del virus. Questo però richiede un po’ di tempo perché si tratta di metodi che vanno validati.

Lei come interpreterebbe la mortalità italiana del Covid-19 che sembra più elevata, soprattutto in Lombardia? Può avere un peso l’età media dei pazienti oppure ci sono altri fattori come appunto la difficoltà di inserire gli asintomatici nelle statistiche dei contagi totali?

Qui ci sono almeno due problemi metodologici e anche su questo ci sono discussioni in corso. Purtroppo gli eventi incalzano e forse non c’è neanche la serenità sufficiente per affrontare un’analisi adeguata delle statistiche disponibili. Comunque il primo problema è quello del denominatore perché quanti più soggetti asintomatici positivi identifichiamo, tanto più il tasso di letalità si riduce dato che lo stesso numero di morti sarebbe diviso per un numero molto più grande di soggetti positivi. Questa può essere la spiegazione della discrepanza con la Germania dove ci sono molti positivi ma pochi decessi e può essere dovuto al fatto che i tedeschi hanno applicato criteri più estesi di ricerca del coronavirus con i tamponi. La seconda spiegazione riguarda invece la classificazione delle cause di morte: su questo c’è una discussione in corso che non è ancora stata chiarita e mi riferisco alla famosa distinzione tra morti per coronavirus e morti con il coronavirus. Sappiamo bene che la grande maggiornanza dei decessi, in Italia ma anche altrove, avviene tra le persone che hanno una comorbidità, cioè altre patologie pregresse come l’ipertensione, il diabete, malattie cardiovascolari o problemi respiratori. Sarebbe utile fare chiarezza tra chi è morto a causa delle altre patologie coesistenti, ma nel contempo ha contratto anche il coronavirus e chi è morto a causa del coronavirus. Dove “a causa” può voler dire che il coronavirus ha indotto una polmonite molto grave che ha provocato la morte - e ci sono casi sporadici anche in persone giovani - oppure può voler dire, nella maggior parte degli altri casi, che il coronavirus agisce da concausa, cioè interferisce con il decorso di una malattia cardiovascolare o respiratoria preesistente e accelera un decesso che si sarebbe verificato più tardi. Quindi bisognerebbe chiarire queste tre categorie: morti a causa diretta del coronavirus, morti a causa del coronavirus che interferisce con le patologie preesistenti oppure morti per le patologie preesistenti in cui c’è anche il coronavirus che però non svolge un ruolo particolarmente importante. Su questo è necessario fare ricerca e bisognerebbe avere un più facile accesso alle cartelli cliniche: adesso c’è un problema di relativa difficoltà di accedere ai dati esistenti e si cerca di capire come potenziare la ricerca clinica.

E per approfondire i principali temi legati al coronavirus, dai modelli epidemiologici alle strategie di contrasto, ma anche la possibilità di vaccini, i test diagnostici e anticorpali, la memoria immunologica e le origini delle epidemie, l'Association of Italian Scientists of the UK ha diffuso il video di un dibattito cui hanno preso parte Alberto Mantovani, Maurizio Cecconi e Paolo Vineis. 

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