Foto: Reuters/Jorge Silva
“È uno scontro identitario. Gli hongoknegsi si sentono cinesi, ma cinesi di un certo tipo”. Così commenta Laura de Giorgi, docente di storia della Cina all'università Ca' Foscari di Venezia, relativamente alle proteste che continuano a Hong Kong dopo la legge sull'estradizione. Le manifestazioni si sono intensificate soprattutto in occasione del ventiduesimo anniversario della cessione di Hong Kong alla Cina popolare da parte della Gran Bretagna.
Per capire meglio le ragioni di ciò che sta succedendo, abbiamo chiesto alla professoressa de Giorgi una panoramica sulla situazione attuale di Hong Kong.
Com'è gestita l'amministrazione di Hong Kong dal momento in cui, 22 anni fa, è passata dal controllo britannico a quello cinese?
Hong Kong è dal 1997 una Regione amministrativa speciale della Repubblica popolare cinese. Questo vuol dire che Pechino esercita la sua sovranità su Hong Kong, che però gode di uno status di accentuata autonomia sul piano politico-amministrativo e legislativo-giuridico. Questo status è reso possibile dal rispetto del principio elaborato da Deng Xiaoping noto come “un Paese, due sistemi”. In pratica la difesa e la politica estera sono prerogativa dello Stato nazionale cinese, ma dal punto di vista economico, giuridico e amministrativo Hong Kong ha un suo sistema istituzionale indipendente da Pechino. Questo status autonomo è sancito dalla Basic Law, la mini-Costituzione discussa e prodotta nel corso delle trattative sino-britanniche iniziate alla fine degli anni Settanta, quando si è iniziato a discutere il processo di ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese. Questo documento costituzionale, frutto della Dichiarazione congiunta del 1984, delinea l'organizzazione di Hong Kong come Regione amministrativa speciale della Repubblica popolare cinese per cinquant'anni, ovvero dal 1997, l'anno del passaggio, fino al 2047.
Che rapporti ha Hong Kong con la Repubblica popolare cinese? Di che genere di indipendenza gode dal governo di Pechino?
Come anticipato, Hong Kong non può avere una sua politica estera e una politica di difesa, prerogative di Pechino, mentre l'ordine interno è mantenuto dalla polizia di Hong Kong. Sul piano legislativo, giuridico e amministrativo (e quindi anche per quanto riguarda l'organizzazione dell'economia) Hong Kong ha un suo sistema di governo, come prevede la Basic Law, che prevede un governatore o meglio un chief executive – che dal 2017 è Carrie Lam, per la prima volta una donna e scelta gradita a Pechino che ne sancisce la nomina – da un consiglio esecutivo e da una consiglio legislativo di 70 membri, di cui la metà scelta attraverso una procedura di elezione ristretta ad associazioni economico-sociali riconosciute, e spesso allineate alla Repubblica popolare cinese. L'applicazione del suffragio universale, prevista dalla Basic Law, è stato oggetto di scontro e polemica politica nel 2014 quando ci sono state le proteste collegate alla cosiddetta rivoluzione degli ombrelli, e al movimento di Occupy Central with Love and Peace a Hong Kong, ostili alla proposta di Pechino di applicare il suffragio, limitando però la scelta degli eleggibili a una lista già approvata. Le proteste all'epoca non hanno però inciso sul quadro politico della Regione, dove nelle istituzioni prevalgono le posizioni favorevoli alla Cina popolare.
Perché la legge sull'estradizione è tanto impopolare tra gli abitanti di Hong Kong?
La legge per l'estradizione proposta prevede accordi con Taiwan, con Macao e anche con la Repubblica popolare cinese. Il progetto è impopolare perché il sistema di amministrazione della giustizia nella Cina popolare è certo meno indipendente dalla politica rispetto a Hong Kong e si teme che la legge possa essere uno strumento per estradare in Cina anche chi è accusato di crimini a carattere politico e d'opinione. In breve, si teme possa aprile la strada a un'ingerenza cinese sempre più forte nel sistema giuridico di Hong Kong, dove sono garantiti il diritto alla libertà di parola e di associazione, che in Cina sono previsti dalla costituzione, ma di fatto vincolati politicamente. Ricordo, ad esempio, che Hong Kong è l'unico luogo dove ancora si fanno le manifestazioni per ricordare la repressione del 1989 a Tian'anmen, mentre eventi del genere sono impensabili nella Cina popolare.
L'applicazione di tale legge è davvero uno strumento del governo cinese per rafforzare il suo controllo su Hong Kong?
Il timore che questa legge possa servire a questo scopo nasce dal fatto che sono anni che i rapporti tra Pechino e alcune parti della società di Hong Kong, specialmente giovani studenti, intellettuali e professionisti, sono tesi. Tutto ciò è legato anche alla percezione, da parte di alcuni settori dell'opinione pubblica della regione, di una progressiva penetrazione e di un radicamento politico ma anche culturale di Pechino all'interno della colonia, il cui profilo è storicamente diverso dalla Cina continentale. A Hong Kong si parla cantonese, non il mandarino, la lingua ufficiale cinese. La storia coloniale ha lasciato poi il segno sul piano culturale. Seppure sudditi coloniali, i residenti cinesi di Hong Kong hanno goduto della tutela giuridica garantita dalle leggi britanniche, che in molti ora vedono minacciata dalla presenza cinese. Vedono minacciata l'indipendenza dei media e delle istituzioni educative, in nome della propaganda patriottica – qualche anno fa c'è stato uno scontro, ad esempio, sulle interpretazioni presenti nei manuali di storia. Anche la migrazione dalla Cina continentale ha suscitato ansie e preoccupazioni, e viene vissuta anche con una certa insofferenza da parte di alcuni gruppi della società di Hong Kong, anche per le conseguenze economiche-sociali. In breve, c'è una parte della società di Hong Kong che si sente diversa – e rivendica questa diversità – rispetto all'identità cinese promossa da Pechino, e questo si è probabilmente accentuato in questi anni di leadership autoritaria di Xi Jinping, il cui stile di potere ha aumentato la diffidenza nei confronti della Cina popolare.
Perché gli scontri si sono fatti particolarmente accesi in occasione del 22esimo anniversario del ritorno di Hong Kong alla Repubblica popolare cinese?
Nel 1997 la società di Hong Kong era favorevole a tornare sotto la sovranità cinese. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, il bilancio è in chiaroscuro e si misura il rischio che questo ritorno possa sempre più implicare una trasformazione politico-culturale e con una limitazione delle protezioni giuridiche e dell'autonomia amministrativa. Per cui la protesta contro questa legge è anche il pretesto per affermare la propria insoddisfazione e i propri timori nei confronti della politica di Pechino.
L'attivista Alexandra Wong, di 63 anni, protesta contro la legge per l'estradizione facendo sventolare la Union Jack. Foto: Reuters/Athit Perawongmetha
Infatti alcuni manifestanti sembrano quasi rimpiangere il loro status di colonia, agitando addirittura la bandiera del Regno Unito.
È una cosa che colpisce molto che si possa richiamare l'età coloniale quasi come momento di libertà; la legge britannica viene percepita come garantista nei confronti degli individui, mentre non si può dire lo stesso per Pechino. Questo serve poi pure a rivendicare il fatto di aver avuto una storia diversa, anche nel rapporto con il mondo esterno, che non può essere ridotta all'interno delle grandi narrazioni patriottiche promosse dalla leadership della Cina continentale. È un modo di affermare un'identità cinese che non coincide con quella proposta da Pechino. D'altronde c'è anche chi rivendica la necessità di lottare per l'indipendenza della regione dalla Repubblica popolare cinese. Il grande timore di Pechino è che anche Hong Kong si radichino posizioni indipendentiste, come presenti già da tempo a Taiwan.