CULTURA

Nel Craxi elegiaco di Amelio la politica è solo un sospiro

Che idea si farebbe di Bettino Craxi un ragazzo che avesse come unica fonte Hammamet di Gianni Amelio? Penserebbe ad una figura tragica, un potente nella polvere, un arrogante ossequiato da tutti che si trova, dopo aver regnato a lungo, costretto a un isolamento e a una malattia che ne rivelano, dietro lo spirito indomabile, caratteri umanissimi nascosti ai più: nostalgia per la patria, tenerezza da nonno e padre, solidarietà verso i miseri, golosità spesso (ma non sempre) frustrata dalla cattiva salute. E, del sovrano caduto, ascolterebbe le grida di dolore, le proteste contro un sistema che l’ha colpito con la massima durezza per dare un esempio, con un uso strumentale dell’azione penale di fronte a “peccati veniali” universalmente diffusi. Insomma, come in ogni tragedia ben riuscita, il giovane spettatore tenderebbe a identificarsi con l’eroe fulminato dalla sventura, accecato da una vendetta abnorme rispetto alla colpa originaria. 

Amelio ha affermato che Hammamet non vuole essere una ricostruzione storica né un giudizio su una stagione cruciale del nostro Paese. Ha perciò impostato il suo film come un’elegia, la narrazione riflessiva e dolente degli ultimi mesi di vita di un uomo di potere che ha visto crollare in pochi mesi il mondo del quale era uno dei padroni e che, nella rovina, lo ha seppellito. È un susseguirsi di dialoghi apparenti che, in realtà, sono monologhi a due voci: nelle conversazioni con i personaggi che lo circondano, il Craxi di Amelio vede rispecchiati il suo narcisismo e la sua visione dei fatti. Non a caso, l’unico momento “drammatico” in senso teatrale, l’unico vero contrasto drammaturgico, è quello che si consuma all’inizio, quando, a margine del trionfale congresso di Milano, lo storico compagno-amico Vincenzo tenta invano di aprirgli gli occhi sulla frana imminente, ottenendo in cambio solo dileggio e commiserazione. 

Per il resto, Hammamet dà voce unicamente ai sospiri, i moti di rabbia, le invettive del Craxi interpretato da Pierfrancesco Favino secondo una linea di mimetismo integrale e perfetto, fisico, vocale e psicologico: una scelta che, se lascia stupefatti per la prova d’attore, sul piano narrativo rende ancora più discutibile la dichiarazione d’intenti iniziale: è difficile presentare un personaggio di tale importanza come “depurato” dal contesto storico-politico cui appartiene, se la regia avalla un’interpretazione così realistica e per nulla straniante. Il presunto intimismo “neutrale” di Craxi-Favino, così ben suggerito dagli ermetici assoli di fiati che Nicola Piovani circonda di pause sapienti, naufraga nel momento in cui la “verità” del protagonista non trova alcun controcanto, alcun interlocutore che lo ponga chiaramente di fronte alle sue contraddizioni e alle sue responsabilità. L’unico vero attacco che riceve è quello di un gruppo di turisti che, riconosciutolo, si scaglia contro di lui, provocandone una reazione irata e altèra: la sola critica è quindi quella dettata dal furore populista e forcaiolo, mentre mancano del tutto voci autorevoli che ricordino quanto i “peccati veniali”, che Craxi rivendica come necessari al funzionamento della democrazia, si siano tradotti in utilizzi del denaro pubblico totalmente arbitrari e abbiano posto le basi per il declino economico della nazione. 

Dovendo a tutti i costi inventarsi un antagonista per evitare l’impressione del monologo ininterrotto, Amelio escogita la figura di Fausto, figlio del compagno di partito Vincenzo, suicidatosi in seguito alla pressione delle inchieste. Fausto rappresenta in modo fin troppo didascalico la cattiva coscienza di Bettino, e insieme la sua umanità: di fronte al senso di colpa incarnato dal figlio del collega, Craxi prende Fausto sotto la sua protezione, fino a offrirgli il privilegio di farlo depositario delle sue memorie più scottanti e private, che il ragazzo filma con la sua videocamera. Ma anche Fausto non è che comparsa tra le comparse: le sue domande non sono incalzanti, il suo risentimento sembra stemperarsi di fronte alla veemenza del leader.

E così, perduta ogni speranza che Hammamet ci consegni qualche scampolo di contraddittorio, qualche lato oscuro dello statista abbattuto dal complotto giudiziario, siamo costretti a subire una serie di sequenze che rimarcano l’immagine del Craxi malinconico e ferito, affettuoso e sensibile: il figlio, erede politico non abbastanza amato, che intona alla chitarra davanti al padre “Avrei bisogno di carezze anch’io”; la tunisina povera e malata che Bettino soccorre, garantendo (addirittura) l’intervento presso il ministro della Sanità; i giochi con il nipotino seguace di Garibaldi, che ricostruisce con i soldatini la crisi di Sigonella, rendendola una specie di resa dei conti da western in cui il nonno è il giustiziere; la timidezza e le esitazioni nell’incontro con la storica amante; l’avidità quasi angosciosa con cui si butta sui piatti di pasta e i dolci proibiti, accelerando gli esiti del diabete; gli scambi di sguardi amorosi e disperati con la figlia, interpretata con discrezione e sensibilità da Livia Rossi. Se l’intento era di umanizzare la figura di un leader così popolare e poi così detestato, Amelio ha purtroppo sortito l’esito opposto: alla descrizione del calvario fisico, certamente angoscioso e logorante, il regista affianca una narrazione a senso unico che, a chiunque abbia sfiorato la complessità storica di Craxi, non può non risultare monca e fuorviante. Il sovrabbondare di finali in chiusura del film, tra toni onirici e patetici e colpi di scena, ribadisce il messaggio di fondo, tutt’altro che apolitico: il Capo va sconfitto e umiliato perché il sistema vuole i suoi martiri. E la fionda liberatoria, forse metafora del gioioso abbattere gli ostacoli (anche giudiziari) al progresso, è la stessa, a pensarci bene, che ha fatto a pezzi l’Italia.

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