SCIENZA E RICERCA

La crisi climatica sta inaridendo il pianeta

Sappiamo che il cambiamento climatico comporta, prima di tutto, un aumento delle temperature medie globali. Ciò significa che, in generale, la Terra è oggi più calda – e continuerà a riscaldarsi nei prossimi decenni – rispetto al periodo precedente alla Rivoluzione industriale. La destabilizzazione di un fattore essenziale per il sistema climatico come la temperatura porta con sé, tuttavia, anche altri effetti indesiderati.

Infatti, sappiamo anche che una delle principali preoccupazioni degli scienziati che studiano l’evoluzione della crisi climatica e ambientale in atto consiste nel valutare in che modo, negli anni a venire, la biosfera – l’insieme degli organismi viventi del pianeta – reagirà a questo rapido cambiamento di condizioni. Uno dei principali timori è che un gran numero di specie non riesca a tenere il passo per adeguarsi ai veloci cambiamenti ambientali e che, per questo fallimento nell’adattarsi a un ecosistema mutato, si estingua. Si tratterebbe della Sesta estinzione di massa, al cui inizio ci avviciniamo a passi da gigante.

A spaventare, in tal senso, non è soltanto l’aumento di temperatura, che sta già rendendo sempre più inospitali le regioni equatoriali, causando di conseguenza un generale spostamento delle nicchie ecologiche verso i poli. Come evidenzia uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PNAS, ancor più veloce dell’aumento delle temperature potrebbe essere l’estensione delle zone aride in tutto il pianeta. I ricercatori spiegano che con l’aumentare delle temperature, in tutto il pianeta varierà anche la distribuzione e l’intensità delle precipitazioni: questi due fattori, insieme, determineranno – lo stanno già facendo, in effetti – «una modificazione dei regimi di aridità attuale o la creazione di nuove zone aride» laddove non erano presenti. «Tali cambiamenti – proseguono i ricercatori – avranno complesse conseguenze a livello biologico, dal momento che l’aridità ha un ruolo importante nel controllare le dinamiche ecosistemiche e l’andamento dei cicli biogeochimici».

Finora, tuttavia, un’analisi accurata di come le specie reagiranno a questi cambiamenti sistemici non era mai stata realizzata. Nella ricerca di PNAS, gli studiosi hanno preso in considerazione parametri come la climate velocity (la velocità climatica), che consente di misurare la velocità di migrazione necessaria perché una specie si mantenga all’interno della propria nicchia ecologica, e la aridity velocity, che valuta con che rapidità si verificherà la transizione da ambiente umido ad ambiente arido, cioè con scarsità di precipitazioni.

Sulla base di dati storici relativi al periodo 1976-2016, i ricercatori hanno realizzato una proiezione di come le zone aride si “muoveranno” sulla Terra nel periodo 2050-2099: l’ipotesi è che l’aridity velocity aumenterà, ma è probabile che, all’interno di scenari di riduzione delle emissioni diversi, tale aumento segua traiettorie non lineari, poiché il passaggio a uno stato di aridità dipende da molteplici variabili climatiche, che possono interagire l’una con l’altra in modi complessi.

Le proiezioni, basate su modelli che valutano la risposta degli ecosistemi – e in particolar modo delle piante – ai possibili scenari di aumento dell’anidride carbonica in atmosfera, restituiscono un quadro variegato. L’inaridimento, infatti, avrà effetti diversi nei diversi biomi: aree protette, dall’elevata biodiversità, aree agricole e aree urbane, dalla cui produttività dipendono molte attività umane. Secondo gli autori le aree protette, che racchiudono una grande biodiversità, con molti endemismi e specie fragili, potrebbero subire, a causa di un aumento dell’aridità, danni ben più gravi rispetto alla media globale. Se si tiene in considerazione la disomogeneità nella distribuzione della biodiversità su scala globale, emerge come il passaggio più brusco da un aumento dell’umidità all’inaridimento si verificherà nelle regioni aride, mentre le zone umide, nelle quali vi è la maggior concentrazione terrestre di diversità biologica, sperimenterebbero i danni maggiori – un rapidissimo inaridimento – nello scenario di riscaldamento globale RCP 8.5, quello in cui il tasso di emissioni rimane alto e non si mettono in pratica azioni di mitigazione efficaci. A livello globale, fra tutti i taxa terrestri i più colpiti saranno senz’altro gli anfibi, in particolar modo le specie adattate ad ambienti umidi, semiumidi e semiaridi, e soprattutto se si verificherà lo scenario peggiore, il business as usual (cioè proprio RCP 8.5).

L’inaridimento, tuttavia, non determinerà “soltanto” una riduzione della biodiversità – problema che, nel breve termine, potrebbe sembrare relativamente insignificante, per noi umani. L’aumento della aridity velocity, al contrario, avrà effetti diretti anche sulle nostre società: si prevede che la produttività dei raccolti subisca un forte calo per via dell’azione congiunta della siccità, dell’aumento delle temperature e della diffusione di insetti nocivi (le locuste, ad esempio, prosperano in ambienti caldi e secchi, e la loro distruttività è stata recentemente sperimentata in Africa orientale, una delle regioni del mondo più povere e più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici). Questa minore produttività, combinata con l’aumento della popolazione umana previsto per i prossimi decenni, determinerà una ridotta disponibilità di cibo e, al tempo stesso, un aumento delle esternalità ambientali dell’agricoltura. È perciò essenziale – avvertono gli autori – che si intervenga con misure di mitigazione e con strategie di adattamento delle colture alle nuove, più difficili condizioni.

Questo studio è un’ulteriore, ennesima conferma del fatto che stiamo correndo verso un mondo caratterizzato da una forte precarietà, i cui effetti consisteranno non solo nelle mutate condizioni climatiche e ambientali, ma anche nella crescente instabilità degli equilibri socioeconomici globali.

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