SCIENZA E RICERCA

La crisi mondiale del nucleare civile

No. Nemmeno il nucleare salverà gli Stati Uniti (e, in percentuale, il mondo intero) dalla mancata riduzione delle emissioni di CO2 nell’aria. 

Se, da una parte, gli scienziati che hanno a cuore il futuro della Terra si erano apertamente schierati contro la decisione del presidente Usa, Donald Trump, di recedere dagli accordi di Parigi sul clima per tornare ad aprire la strada (antica e pericolosa) del carbone, dall’altra si alza anche il pericolo che l’industria nucleare civile americana stia andando in crisi

Se gli studi fossero largamente confermati, si aprirebbe un altro vulnus al clima non indifferente: al netto del problema (non di poco conto) dello stoccaggio e dello smaltimento delle scorie radioattive e in mancanza di politiche volte a investire nelle energie alternative “verdi”, il nucleare rimane la fonte più importante di “energia pulita”, cioè priva di emissioni di anidride carbonica

Cosa sta succedendo. A destare l’attenzione ci pensa un articolo pubblicato sulla rivista Pnas, dall’emblematico titolo “Us nuclear power: The vanishing low-carbon wedge”. I ricercatori sostengono che l’energia nucleare detenga un ruolo significativo per contribuire al processo di de-carbonizzazione del sistema energetico statunitense, ma – mettono in guardia – non è chiaro se sia possibile nella forma attuale con cui è prodotta. 

Su una cosa è necessario concordare: per riuscire a raggiungere gli obiettivi fissati dal protocollo di Parigi, che prevede di mantenere l’aumento medio globale della temperatura ben al di sotto di 2° C rispetto ai livelli pre-industriali, bisogna mettere in campo “tutto quello che abbiamo a disposizione”Spazio quindi alle energie rinnovabili, ovviamente, ma spazio anche a una tecnologia come il nucleare, con particolare riguardo alle nuove generazioni di impianti. “Da anni – si legge nell’articolo di Pnas– numerosi studi investigano il ruolo del nucleare nel mitigare l’uso di combustibili fossili, analizzando costi e benefici dal punto di vista tecnico, economico, politico e sociale”. Ma la conclusione è tranchant: “È improbabile che l’energia prodotta dagli atomi possa contribuire alla de-carbonizzazione”, negli Stati Uniti e verosimilmente nel resto del mondo. 

I motivi? Gli impianti sono troppo costosi e vecchi, schiacciati in mezzo a un malcontento popolare su questo tipo di energia (pesa ancora l’episodio disastroso, nel 2011, di Fukushima in Giappone) e a una politica poco incline a “metterci la faccia”. 

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I costi. Per tre decadi il 20% dell’energia elettrica prodotta negli Stati Uniti è arrivata dai large light water nuclear reactors (LWRs), sviluppati all’inizio dell’era dell’atomo. Queste centrali però non sono più “le vacche da mungere degli anni d’oro”, messe all’angolo dal basso costo di estrazione del gas naturale e, in parte minore, da un aumento di utilizzo di fonti rinnovabili di energia. Questi due fattori, combinati, hanno fatto in modo che le centrali vecchie operino a regimi ridotti, ma con costi di manutenzione e di produzione “proibitivi”. Il risultato: molti impianti hanno già chiuso, altri sono in programma a macchia di leopardo tra gli stati di New York, Illinois e New Jersey. Se si aggiunge la già citata opposizione pubblica e i problemi di manutenzione di strutture obsolete, allora è chiaro come si sia entrati in una fase di dismissione in tutto il territorio nord americano

Ma non è così scontato che su questi ruderi nascano le centrali di nuova generazione, non nell’immediato futuro. L’industria non è disposta a investire di nuovo negli LWRs, ma sarebbe portata a spendersi in tecnologie più piccole e meno costose nella gestione, come i non-light water reactors o gli small modular reactors (SMRs). Ma anche in questo caso i dubbi sono tanti: secondo i ricercatori i costi di costruzione di questi SMRs sarebbero sì minori rispetto agli LWRs ma non necessariamente più competitivi a livello economico per la produzione dell’energia elettrica. Le conclusioni? “Non vediamo – si legge nello studio – una chiara intenzione da parte degli Stati Uniti di investire risorse in questa direzione in modo tale da garantire una reale riduzione delle emissioni in atmosfera”. 

E nel resto del mondo? Il nucleare attraversa una crisi anche in Europa. In Germania, Angela Merkel, seppur con qualche marcia indietro, ha promesso di dismettere tutti gli impianti entro il 2022la Francia, che detiene il più alto numero di centrali nucleari attive in territorio europeo, ha due fronti aperti: strutture vecchie come negli USA e ritardi e problemi tecnici (ed economici) per gli impianti di nuova generazione. 

Infine c’è l’eccezione: la Cina. Il Paese asiatico è l’unico che sta investendo un grande budget per aumentare il suo parco nucleare civile. Un terzo delle 60 centrali nucleari in costruzione nel mondo si trova in Cina e stime dell’agenzia internazionale dell’Energia (Iea) dicono che entro 20 anni il più popoloso stato del mondo supererà proprio gli Stati Uniti nella produzione di energia elettrica dall’atomo. I motivi sono semplici: da una parte la forte crescita industriale cinese spinge per aumentare la produzione di energia disponibile, dall’altra il governo deve ridurre drasticamente l’emissione di CO2 nell’aria. Altrimenti la Cina è e rimarrà una delle aree geografiche più inquinate del pianeta.

E l’energia verde? Al momento resta alla porta, ma segnali timidi arrivano nel Vecchio Continente dalla Germania e, più convinti, dal Sud America.

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