Cena leopardiana a Recanati il 15 dicembre 2025
Lasciamo Giacomo Leopardi alla sua epoca. Noi posteri possiamo intrattenerci utilmente e godibilmente ancora con i suoi scritti e i suoi appunti, uno zibaldone di belle scritture. Ovviamente, Leopardi trascorreva le giornate anche mangiando qualcosa. Capitò di rinvenire una lista manoscritta autografa di istruzioni per l’amico cuoco di casa negli anni in cui visse con Ranieri a Napoli, preziosamente custodita alla Biblioteca Nazionale partenopea (ove esiste una ricchissima collezione leopardiana, fra cui appunto le Carte Ranieri), segno dell’intera esperienza vitale di commensale, soprattutto legata ad abitudini e squisitezze marchigiane. In un ritaglio di carta avorio, lungo e sottile, con inchiostro bruno e ancora una volta calligrafia minuta e precisa, negli anni Trenta dell’Ottocento, Leopardi traccia un promemoria “familiare”: decide di elencare le proprie quarantanove predilezioni gastronomiche, numerandole in due colonne (ventisei sulla prima, a sinistra); indica la denominazione dei cibi e delle sommarie preparazioni, considerando anche il regime alimentare “teorico” da seguire sulla base delle indicazioni di medici (connesse, come noto, a uno stato di salute malato e precario).
Non è una dieta: non vi sono indicazioni su periodicità o frequenza, non descrive vere e proprie ricette, non indica quantità o ingredienti specifici, non parla dei piatti che forse poteva mangiare solo fuori casa (per esempio la pizza), non suggerisce come intercalare le portate in un pasto e in vari pasti, né tantomeno abbinamenti con vini (segnalazione divenuta forse indispensabile solo molto successivamente, addirittura oltre un secolo dopo la scienza “italiana” della cucina e del mangiare bene, opera di Pellegrino Artusi). Leopardi inizia con “Tortellini di magro”, “Maccheroni o tagliolini”, “Capellini al burro” e finisce con “Zucche o insalate ecc. con ripieno di carne” “Lingua ecc.”, “Farinata di riso”. A questo punto, vi invitiamo proprio a partecipare a una cena leopardiana! Il 15 dicembre 2025, in un bel ristorante di Recanati potreste provare alcuni dei gustosi piatti indicati da Leopardi, fra trenta e trentacinque partecipanti su prenotazione, con un’originale inedita connessione a vini e liquori marchigiani, di origine e qualità certificate!
Non è la prima volta, ovviamente. Singoli piatti sono stati già recuperati al palato contemporaneo, con vari adattamenti o integrazioni. È capitato altre volte che venissero organizzati eventi, conferenze o manifestazioni dedicati al mangiare e al bere di Giacomo Leopardi, pure con assaggi e dimostrazioni. Inoltre, potreste con facilità rintracciare la lista e destreggiarvi (sinistreggiarvi) da soli o fra i vostri fornelli e tavoli; il consiglio è di farlo in più differenti distanziate occasioni, visto il numero quarantanove e la sconsiderata presenza di dolci nell’elenco. Molto è stato documentato per iscritto e ricostruito specificamente della sua dieta solida e liquida nelle varie fasi della vita, per esempio in tempi più recenti da Domenico Pasquariello e Antonio Tubelli (Leopardi a tavola, Fausto Lupetti Bologna, 2008) e Tommaso Lucchetti (Il poeta e la sua mensa, Il Lavoro Editoriale Ancona, 2012).
All’interno dell’alimentazione e delle relative ricette c’è sempre stato anche il vino, prodotto bevuto incontrato gustato, anche “usato” alla bisogna. Su Giacomo e l’enologia sono state scritte molte pagine, parti di volumi biografici o dedicate ad aspetti della sua esistenza e arte, ne abbiamo già parlato: nella vita del poeta filosofo la coltura della vite e la cultura del vino sono sempre state presenti. Se ne parlava, tanti familiari e intimi se ne occupavano, la biblioteca conteneva libri in materia, se ne beveva, lui ci ragionò sopra (imparando ad amare i prodotti marchigiani, come poi espresse esplicitamente), studiò gli effetti su corpo e mente propri e dei commensali, ne scrisse, ne provò di diverse tipologie anche durante i viaggi (a Bologna come a Napoli). Le tracce documentarie sono state abbastanza studiate, dalle poesie giovanili alle traduzioni, da varie lettere nell’Epistolario alle Operette Morali e (soprattutto) allo Zibaldone.
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In linea di massima sappiamo, dunque, cosa Leopardi amava bere e mangiare. Purtuttavia, la cena del 15 dicembre è un appuntamento davvero originale e affascinante, in parte replicabile peraltro, nel familiare gemellaggio allargato fra la minuta Recanati e la possente Napoli. Uno dei due cuochi della serata si occupa da decenni della riattualizzazione della cucina e della gastronomia napoletana e curò nel 2008 proprio la pubblicazione del volume “Leopardi a tavola”, che si conclude con venti dettagliate ricette, a partire dalla lista leopardiana, seguendo l’ordine delle stagioni con relativi profumi, essenze, riti. La selezione e la sequenza dei piatti scelti per il menu autunnale ha un ritmo non lineare e scontato, riuscendo a definire un’esperienza unitaria, meditata e organica. Finalmente, si tenta di pensare e realizzare abbinamenti coerenti con le bevande (cortesemente messe a disposizione da produttori marchigiani), soprattutto i vini ovviamente, che rimandano alle colline non escluse dallo sguardo recanatese, allora come oggi (e pure gli “autoctoni” liquori provengono dai Monti Azzurri). L’apprezzato noto ristorante (“Calalapasta”) avrebbe giorno di chiusura il lunedì e, quindi, aprirà solo per il saporito gruppo di commensali prenotati, un convivio gentile e mite, ristretto e potenzialmente affiatato.
La cena, inoltre, si collega alla presentazione pomeridiana (aperta al pubblico) del numero speciale di una bella rivista napoletan-nazionale dedicato a Leopardi, con decine di scritti di docenti ed esperti (da Enrico Ghidetti a Mario Martone), la riproposizione di un’intervista a Ingrao e di un saggio di Luporini sul poeta recanatese, materiali e spunti. Se ne discuterà a metà pomeriggio con gli organizzatori del bimestrale Infinitimondi, dell’Istituto Gramsci Marche, del locale circolo Arci La Serra e, volendo e potendo, si continuerà poi fra un boccone e l’altro, senza conclusioni certe e rigide: Leopardi merita ancora meditazioni scientifiche e allegre
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Leopardi era stato sempre attento al palato e ai piaceri della tavola, aveva assaggiato e spesso gustato prodotti di vari territori e preparazioni di varie famiglie e locali, possedeva una sperimentata cultura gastronomica in senso completo. A Napoli era arrivato nell’autunno 1833, non vissero sempre nella stessa residenza, spesso era con loro la premurosa sorella di Antonio, anche lei di nome Paolina (come la sorella di Giacomo, che però non poteva muoversi da Recanati, almeno finché i genitori furono vivi), oltre che aiutanti amici visitatori ospiti medici, più o meno affezionati e frequenti. A maggio 1835 si trasferirono a Vico Pero (dove il poeta morì oltre due anni dopo), quartiere Stella, vicino alla via (Santa Teresa) che conduce dal Museo Archeologico Nazionale a Capodimonte. Era già da tempo con Leopardi e i due Ranieri anche il meno giovane Pasquale Ignarra, patriota rivoluzionario, esule politico (dopo i cruciali moti del 1799) e finissimo cuoco, definibile precariamente come “cameriere” o “maggiordomo” incaricato dal prode scoppiettante Antonio e responsabile dei pasti di tutti.
Napoli era una delle più popolose metropoli europee, con oltre 360.000 residenti, poveri e ricchi, popolani e viaggiatori, in vario modo socialmente e culturalmente meticcia. La lista dei quarantanove piatti risale a quegli anni. Leopardi aveva in parte già gusti consolidati e si immerse con curiosità e intensità nelle straordinarie specialità napoletane, vesuviane e campane. Frequentava i suoi locali preferiti per molto zuccherati caffè, granite, gelati, pasticceria e altri carboidrati più complessi e di speciale preparazione. Desinava perlopiù a “casa”, quando possibile abbastanza di tutto e di più, dopo che da adolescente aveva scritto che in genere mangiava poco. I piatti citati risentono di frequentazioni non solo casalinghe e partenopee, ovviamente marchigiane e bolognesi, toscane e laziali, avendo poi apprezzato pane di casa confezionato in forma di bastoni da una ligure di Genova o i particolari confetti abruzzesi di Sulmona, tentando poi sempre di mantenere tradizioni da festività annuali come le uova sode a Pasqua, i cappelletti e le cialde a Natale, i dolci fritti a Carnevale e via mangiando e bevendo.
Nelle scritture leopardiane troviamo frequenti riferimenti ai piaceri alimentari e conviviali, del resto era cresciuto in un contesto sia aristocratico che rurale, maturando nel tempo una certa parziale inclinazione al banchetto solitario (non sopportava di parlare masticando), alla sensibile introspezione pure rispetto alla propria mensa e al significato antico e moderno dei cibi o dei nutrimenti. L’epistolario, in particolare, risulta spesso colmo di riflessioni sui saperi alimentari dell’epoca, da condividere soprattutto con i parenti della famiglia d’origine, lui in viaggio spesso dalla fine del 1822, loro nell’immenso palazzo di casa. Nelle prime trasferte a Roma o a Bologna, fra l’altro, portava con sé o si faceva arrivare ghiotte leccornie e tipicità delle proprie terre, come formaggi e salumi, che comunque socializzava con amici e conoscenti. Conclude Lucchetti nel volume del 2012, prima di accennare a un ricettario motivato di una quindicina di piatti: “la figura di un Leopardi gourmet” va “considerata improbabile”. Alla traccia indelebile nella storia della letteratura italiana (non solo poetica), al ruolo fondamentale di intellettuale scienziato filosofo, tuttavia vanno aggiunti utili spunti di occasionale storico e appassionato critico della cultura gastronomica e dell’arte conviviale.
Di Leopardi ci si continua a dilettare comunque e ovunque, prima e dopo il 15 dicembre, a Recanati e a Napoli, altrove in Italia e all’estero. Varie istituzioni (talora senza ben coordinarsi) gestiscono e consentono di fruire del suo patrimonio materiale; di recente è stata ottimamente restaurata una sua importante lettera al padre Monaldo (da Firenze, malatissimo) del 7 luglio 1833; tanti e tante continuano a leggerlo e studiarlo; presto uscirà a Madrid la prima traduzione integrale in spagnolo dello Zibaldone curata dalla bravissima premiata filologa novantenne María de las Nieves Muñiz Muñiz; false citazioni e veri algoritmi, intelligenze artificiali e linguaggi digitali ne modificheranno probabilmente la “gloria” futura. La cena della prossima metà dicembre costituisce solo un’altra piccola riservata “occasione” per dedicargli attimi sociali, trascorrendo un paio di piacevoli ore, senza “storicizzare” proprio tutto, una volta tanto.