
"Mosè" di Michelangelo Buonarroti (1513-1542) nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma.
“Perché non parli?” avrebbe chiesto Michelangelo al suo Mosè, al tempo stesso colpito dalla potenza espressiva della scultura, ma anche frustrato dal suo mutismo (almeno secondo una famosa leggenda, quasi certamente falsa). E la stessa domanda è anche il titolo dell’ultimo libro di Giovanni Carrada che ci porta nelle sale di tanti musei italiani, tra gloriose rovine di siti archeologici e davanti ai cartigli delle opere d’arte che attirano ogni anno milioni di visitatori. L’autore infatti riprende l’interrogativo michelangiolesco per porre un problema cruciale: perché il patrimonio culturale italiano, pur essendo tra i più ricchi al mondo, spesso non riesce a comunicare, a raccontarsi, a suscitare curiosità in chi lo visita? Carrada è curatore di progetti di divulgazione scientifica e autore di programmi televisivi (come quelli di Piero e Alberto Angela), e da anni si dedica alla progettazione di mostre, esposizioni museali e interventi di valorizzazione del patrimonio storico, artistico e industriale italiano.
Abbiamo sentito Giovanni Carrada per capire da dove nasce l’idea di Perché non parli? Come raccontare il patrimonio culturale (Johan&Levi editore, 2025) e ci spiega che viene “da una frustrazione che provo spesso da visitatore nel non trovare ciò che vorrei, nel notare la differenza tra come vengono presentati luoghi e oggetti in Inghilterra - che frequento molto - e in Italia, dove il settore storico-artistico è rimasto fermo a un rapporto con i visitatori e con la cultura vecchio di almeno una generazione”. Ma oltre alla frustrazione alla base del libro c’è anche una piccola speranza, perché l’autore nota come il mondo dei musei e dei siti archeologici italiani si sia “svegliato finalmente, ha capito che bisogna fare qualcosa e che questi luoghi vanno in qualche modo raccontati, quindi ho pensato fosse arrivato il momento di dare un mio contributo”.
Non a caso la prefazione è di James M. Bradburne (già direttore della Pinacoteca di Brera a Milano e di Palazzo Strozzi a Firenze) che sembra condividere in pieno le riflessioni di Carrada, anche se non si conoscevano prima che questo libro li facesse incontrare. Eppure hanno fatto un percorso in qualche modo simile, che passa dalla comunicazione della scienza, perché per i primi 15 anni della sua carriera Bradburne si è occupato di musei scientifici, lavorando per esempio al science centre di Bristol con il neuropsicologo Richard Gregory. Inoltre, Bradburne “viene dalla cultura anglosassone - dice Carrada - dove sei al servizio del pubblico, non gli fai un favore dall’alto della tua immensa cultura; viene da un’idea profondamente democratica dell’interpretazione dei beni culturali che purtroppo non è molto italiana”.
Secondo l’autore di Perché non parli? questo atteggiamento un po’ elitario che affligge l’ambito museale italiano viene da lontano, ma in questi ultimi anni qualcosa sta cambiando, soprattutto c’è un’attenzione maggiore rispetto all’accessibilità. Infatti, ci racconta che c’è “un’enorme e giustissima richiesta di abbattere le barriere architettoniche e sensoriali, ma non di accessibilità culturale (o addirittura cognitiva). Per esempio, un visitatore che magari ha un dottorato in astrofisica, ma non sa nulla degli etruschi, ha delle oggettive barriere culturali di fronte a certi musei o allestimenti: di questo finora non se ne occupa nessuno, la barriera culturale non è ancora entrata nel radar”.

"Processione in Piazza San Marco" di Gentile Bellini (1490)
Forse ci servono “musei delle città”
Il saggio di Carrada è ricchissimo di esempi e ogni capitolo parte da una visita a un museo o a un sito archeologico: dalle rovine di Pompei a Bologna, da Milano alla Reggia di Caserta. Chi legge viene accompagnato, con una scrittura chiara e priva di tecnicismi, in un curioso viaggio tra musei innovativi e istituzioni ancora troppo legate al passato, in cui le critiche costruttive sono sempre affiancate da spunti per migliorare. Perché si capisce che ciò che lo muove è un vero amore per il patrimonio artistico e culturale italiano, di cui siamo tutti molto orgogliosi, ma che a suo dire potrebbe essere reso ancor più fruibile per un pubblico più ampio.
Un esempio eclatante secondo l’autore sono i musei di Venezia dove manca “un museo sulla civiltà veneziana, perché gli oggetti che potrebbero raccontare la città sono tutti sparpagliati in vari musei (dal Correr alle Gallerie dell’Accademia), ma chi arriva a Venezia non ha nulla per capire in che posto è finito. Già lo sanno poco gli italiani, figuriamoci cinesi, giapponesi, indiani, americani... eppure Venezia è stata un esperimento straordinario, ma non c’è modo di saperlo così come a Roma o a Firenze”.
Forse il tipo di museo di cui Carrada lamenta la mancanza in Italia è quello che invece spesso si può trovare all’estero, ovvero il museo della città come ce ne sono per esempio a Vienna o a Rijeka (Fiume in italiano). E proprio parlando della città croata è facile paragonarla a uno degli esempi citati anche nel libro: Trieste che l’autore descrive come un caso di studio eccezionale. “Un esperimento di multiculturalismo che per un periodo ha funzionato, ha prodotto un’esplosione culturale ed economica, ha attirato il meglio da tutta Europa e poi, dopo la prima guerra mondiale e il fascismo, tutto è andato in frantumi. A Trieste – prosegue Carrada – sarebbe ancora oggi utilissima una storia condivisa della città, di cosa è andato nel verso giusto e cosa è andato storto. Ma non ci siamo interrogati sul passato, neanche sulla storia romana, e nemmeno il famoso rinascimento nessuno spiega davvero che periodo fu... In Italia c’è solo l’arte, siamo un Paese che si racconta con l’arte e la cucina, non si racconta con la scienza o con la storia”.

Piazza Unità d'Italia a Trieste vista dal Molo Audace
Connettere oggetti, storie, emozioni
Sembra quasi un paradosso in questi anni di turismo di massa, in cui le nostre città d’arte devono sempre più spesso gestire folle di visitatori che gremiscono i loro centri storici; ma quante di queste persone poi entreranno in un museo o in una dimora storica? Nel suo libro Carrada sottolinea però come la vera valorizzazione del patrimonio non si misura soltanto in biglietti venduti, ma nel numero di persone che fruendolo si portano a casa una nuova consapevolezza, la scintilla di una curiosità, un’emozione vissuta. Per l’autore, interpretare i beni culturali significa offrire un servizio al pubblico, non solo conservarli per chi li studia; accendere l’immaginazione di chi ne gode, connettere oggetti e luoghi con le emozioni delle persone, regalare conoscenza e ispirazione.
Perché non parli? si rivolge sia agli addetti ai lavori (curatrici, operatori museali, aspiranti divulgatori), sia a chiunque sia interessato a capire come si possa dare una nuova voce al nostro ricco patrimonio, superando il paradosso di un’Italia bravissima a tutelare e restaurare, ma ancora poco efficace nel raccontare. Il saggio non fa sconti, ma indica vari aspetti che si possono migliorare e offre anche tanti spunti per arricchire l’esperienza dei visitatori. Anche perché sono ancora molti gli italiani che non visitano nemmeno un museo all’anno: circa sette su dieci, secondo i dati ISTAT citati da Carrada.
Volendo provare a riassumere cosa accomuna tutti gli esempi portati dal libro in un solo consiglio, l’autore ci dice che la cosa fondamentale da fare è “cercare di capire che cosa del proprio luogo, oggetto o sapere risponde a qualcosa che è nella mente delle persone, perché se non crei questa connessione null’altro passa. Bisogna avere l’umiltà di guardare il proprio sito o collezione da fuori e pensare «ma chi viene qua che ci può trovare?» e iniziare a lavorare da lì”.
Coinvolgendo magari anche altre professionalità, esperte di altre discipline, che sappiano sviluppare un aspetto del luogo, dell’oggetto, della collezione che possa parlare alle persone, perché secondo Carrada “l’interpretazione è una coproduzione: posso suggerire qualcosa ma poi funziona se questo mette in moto dei pensieri o delle immagini nella testa delle persone. Anche in questo campo vale quello che diceva Plutarco sulla scuola, cioè che i visitatori (come le giovani menti) non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”.
Un libro dunque che è un invito a ripensare il modo in cui raccontiamo il nostro patrimonio per renderlo vivo e dialogante, una lettura preziosa per chi lavora nella cultura, ma anche per chi, semplicemente, si è chiesto almeno una volta perché, davanti a tanta bellezza, spesso non ci sentiamo davvero coinvolti in una storia che ci riguarda da vicino.