CULTURA

Dal sogno al cinema e ritorno: la passione che ci porta in sala

C’è un momento che chiunque abbia messo piede in una sala cinematografica conosce bene: le luci si abbassano, il brusio si spegne, e ci ritroviamo avvolti dal buio. Non è lo stesso buio che incontriamo quando andiamo a dormire, ma un’oscurità rituale, dentro cui c’è una promessa: quella di entrare in un altro mondo, in cui possiamo dimenticare per un po’ tutto quello che accade fuori, comprese ansie, preoccupazioni e forse anche un po’ noi stessi. Quello della proiezione cinematografica è un tempo sospeso, un tempo in cui continuiamo ad esistere, certo, ma, si potrebbe dire, a mezzo servizio, un po’come nei sogni. Come sa bene chi non si è ancora completamente arreso a Netflix e ai suoi compagni, non è solo la storia che stiamo per guardare a darci piacere, ma la condizione stessa dell’esperienza.

Ma perché ci piace così tanto andare al cinema? Perché questo rito continua ad attrarci anche oggi, quando possiamo guardare film in ogni momento, sul divano e perfino sul cellulare? Perché il cinema, inteso come esperienza condivisa in sala, non smette di esercitare il suo fascino? La risposta non sta solo nell’audio, nella qualità delle immagini o negli effetti speciali, ma in qualcosa di più profondo, che ha a che fare con l’inconscio, con i sogni, con i meccanismi della nostra mente e con il desiderio di riconoscerci in immagini che non ci appartengono, eppure parlano di noi.

Il cinema, parente stretto del sogno

Sigmund Freud sosteneva che i sogni sono la “via regia all’inconscio”.

L'interpretazione del sogno è la via regia che porta alla conoscenza dell'inconscio nella vita psichica. Seguendo l'analisi del sogno, raggiungiamo una conoscenza parziale della composizione di questo strumento quant'altri mai misterioso e stupendo Sigmund Freud

Nel sonno, diceva, la mente costruisce narrazioni che rivelano i nostri desideri più nascosti, travestiti e mascherati attraverso condensazioni e spostamenti: il sogno è teatro notturno della psiche. E se il cinema avesse costruito una sua fortuna proprio perché a modo suo è come un sogno a occhi aperti? L’idea non è nuova, e da più di un secolo i teorici notano la somiglianza tra l’esperienza onirica e quella cinematografica: entrambe ci trasportano in scenari in cui ci identifichiamo con personaggi, attraversiamo spazi e tempi che non obbediscono alla logica della realtà, viviamo emozioni intense senza muoverci dal nostro posto: un attimo prima siamo su una poltrona comoda, un attimo dopo stiamo vivendo vite che non sono le nostre.

Il teorico francese Jean-Louis Baudry, negli anni Settanta, ha formalizzato questa intuizione con la cosiddetta teoria del dispositivo cinematografico (Jean-Louis Baudry, Il dispositivo, Els La Scuola). Guardare un film è come sognare: siamo immobili, in una stanza buia, catturati da un flusso di immagini che si proiettano davanti a noi e, proprio come nel sogno, non possiamo interrompere a piacimento la sequenza, quindi siamo spettatori di un racconto che procede senza il nostro controllo cosciente. L’inconscio non distingue tra rappresentazione e realtà, e proprio come nei sogni reagisce a ciò che vediamo come se fosse reale.

I sogni hanno regole narrative proprie, piani temporali che si intrecciano, mondi che sembrano veri ma si sgretolano appena ci accorgiamo della loro natura fragile: chi ha visto Inception di Christopher Nolan ha sicuramente fatto esperienza del confine labile che separa cinema e sogno, ma in tutti i film c’è qualcosa di onirico. Pensiamo a Casablanca di Michael Curtiz, quando Rick rievoca la Parigi del suo amore perduto: il flashback funziona come un ricordo onirico che invade il presente, sospendendo la linearità del tempo e riportando in superficie un’emozione che brucia ancora.

Ombre sulla parete: la caverna di Platone

Baudry spinge ancora più in là il paragone: lo spettatore al cinema è come il prigioniero nella caverna di Platone. Immobilizzato, osserva ombre proiettate sulla parete (lo schermo) da un fascio di luce che non può controllare. Quelle ombre non sono la realtà, ma il prigioniero le vive come se lo fossero e il cinema riproduce questa condizione in modo perfetto: sappiamo che ciò che vediamo è finzione, ma reagiamo con paura, commozione, stupore, proprio come se fosse vero. Pensiamo a Jurassic Park di Steven Spielberg: razionalmente sappiamo bene che non troveremo mai un dinosauro che cammina sulla Terra, eppure l’irruzione del tirannosauro scatena in noi una paura autentica. Non stiamo “facendo finta”: il nostro corpo reagisce come se fosse in pericolo (anche se in modo più blando) e così, come nei sogni possiamo provare terrore, vergogna, felicità intensa pur sapendo al risveglio che nulla era reale, allo stesso modo in sala viviamo le emozioni come esperienze vere, e infatti durante le prime proiezioni della storia ci furono persone che scapparono spaventate dalla sala.

Il cinema ci piace perché ci illude, e noi vogliamo essere ingannati, vogliamo crederci, vogliamo vivere come reale qualcosa che razionalmente sappiamo essere un’illusione e come il sogno è un inganno che ci permette di esplorare parti di noi che la veglia tiene a bada: desideri inconfessabili, paure infantili, amori impossibili.

Lo specchio dell’inconscio: identificarsi sullo schermo

Il cinema non ci cattura solo perché somiglia a un sogno, ma anche perché ci permette di riconoscerci in ciò che vediamo. Christian Metz, uno dei principali teorici della psicoanalisi applicata al cinema, ha dedicato pagine fondamentali a questo tema nel libro Cinema e psicanalisi - Il significante immaginario, rielaborando anche le teorie dello psicanalista Jacques Lacan.

Secondo Metz, la visione cinematografica riproduce quella che Jacques Lacan aveva definito “fase dello specchio”. Il bambino, intorno ai sei mesi, si riconosce per la prima volta nella propria immagine riflessa: non sa ancora camminare bene, non controlla il corpo con sicurezza, eppure nello specchio vede un sé “intero”, compatto, ideale, e questa è una rivelazione che fonda l’identità: da quel momento il bambino inizia a percepirsi come un “io”.

Al cinema accade qualcosa di analogo: anche lo spettatore si proietta nello schermo e ci ritrova un’identità possibile, una vita che avrebbe potuto essere la sua in luoghi e tempi diversi. Quest’identificazione, tra l’altro, non si limita ai personaggi della storia, perché come spettatori ci identifichiamo anche con l’atto stesso del vedere, con la macchina da presa che diventa il nostro occhio, un po’ come Jeff Jefferies in La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock.
È per questo che il cinema è così potente: non si limita a farci assistere a una storia, ci invita a viverla da dentro, è un dispositivo che trasforma il nostro sguardo in esperienza, ci fa sentire al centro di un mondo che non esiste, eppure ci sembra più reale della realtà. Il nostro io si proietta nello spazio filmico, abita i corpi e le azioni degli altri, e questo è il paradosso che Metz e Lacan avevano intuito: nello specchio del cinema non vediamo semplicemente un riflesso, ma un io idealizzato, un io che vorremmo essere, anche solo per un’oretta.

Pillola rossa o pillola blu?

Un altro film che gioca magistralmente con questa dinamica è Matrix (1999). La storia di Neo non è solo la lotta contro un sistema oppressivo, ma anche un grande racconto sull’identificazione: chi siamo davvero? Quello che crediamo di essere o quello che lo schermo ci mostra?

Il film mette in scena la stessa vertigine dello spettatore davanti al cinema: quando Morpheus offre a Neo la pillola rossa o quella blu, non sta forse offrendo anche a noi la scelta tra restare nel sogno o affrontare la realtà? Non a caso le sedute nella “caverna” virtuale di Matrix ricordano tanto quelle in una sala cinematografica: corpi fermi e mente immersa in un mondo di immagini che sembrano reali. Guardare Matrix è guardare un film che parla di se stesso e del nostro modo di identificarci: ci riconosciamo in Neo non solo perché è l’eroe, ma perché, come spettatori, viviamo la stessa illusione che vive lui.

Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non dovessi più svegliarti, come potresti distinguere il mondo dei sogni dalla realtà? Matrix

Lo specchio è deformante

Il cinema non ci restituisce la realtà così com’è: la amplifica, la distorce, la rende più intensa. È un po’ come un sogno che rielabora i nostri ricordi: riconosciamo qualcosa di familiare, ma in una forma alterata, che ci sorprende e ci inquieta. Lucilla Albano sintetizza perfettamente questo concetto in Lo schermo dei sogni (Marsilio), in cui descrive lo schermo come uno specchio che non riflette semplicemente, ma deforma e conclude che questa deformazione è parte del piacere: andiamo al cinema per ritrovare noi stessi, certo, ma anche per vederci diversi, più coraggiosi, più appassionati, più disperati, più vivi. Il cinema è uno specchio che restituisce versioni alternative del nostro io, facendoci provare emozioni che, nella vita quotidiana, restano spesso represse o irraggiungibili (a volte è una fortuna).

Inoltre, esattamente come nei sogni, l’identificazione al cinema non è mai univoca: possiamo identificarci con l’eroe ma anche con l’antagonista, con un personaggio secondario, persino con la folla anonima. Pensiamo a Inside Out della Pixar: apparentemente racconta soltanto la mente di una ragazzina, Riley, ma in realtà spalanca un ventaglio di possibilità identificative. A volte, a seconda dell’umore, ci si ritrova nell’energia instancabile di Gioia, altre nell’inquietudine fragile di Tristezza, nei casi peggiori nelle esplosioni di Rabbia o nelle esitazioni prudenti di Paura. Persino Disgusto, con il suo atteggiamento di difesa, è una possibilità per qualcuno. Il film ci permette di essere tutti quei personaggi insieme e di riconoscere nel flusso delle emozioni sullo schermo la complessità che abita dentro di noi: è in questa moltiplicazione di io possibili che il cinema rivela la sua natura di specchio deformante che non restituisce un’immagine unica e rassicurante, ma ci mostra versioni contraddittorie e sfaccettate di ciò che siamo.

È anche questa proliferazione di io possibili che rende il cinema così seducente. In sala, per due ore, possiamo smettere di essere uno soltanto e diventare tanti, un po’ come nei sogni, dove ci capita di vivere esperienze contraddittorie, di essere noi stessi e qualcun altro allo stesso tempo.

Il montaggio ricalca la mente al lavoro

Se il cinema ci affascina è anche perché il suo linguaggio imita il funzionamento della mente. Il montaggio infatti ricorda da vicino i meccanismi psichici di associazione. Un’inquadratura ne richiama un’altra, e dalla giustapposizione nasce un significato che non era presente nelle immagini isolate.
Sergej Ejzenštejn, teorico del cinema sovietico, parlava di “montaggio delle attrazioni”: la collisione fra due immagini genera un pensiero nuovo, un’idea che va oltre la somma delle parti. Freud avrebbe detto che funziona come il lavoro onirico: i sogni condensano e spostano elementi della vita reale, creando immagini ibride, apparentemente assurde ma dense di significato, se le si sanno interpretare.

Un esempio celebre è in 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick con il celebre salto dall’osso lanciato in aria alla navicella spaziale che è un condensato temporale che ricorda il lavoro onirico del sogno freudiano: in un istante attraversiamo milioni di anni di storia, come in un’associazione mentale che salta senza fatica tra epoche e spazi. Nessun racconto lineare potrebbe rendere questo salto con la stessa immediatezza, è un pensiero visivo, un lampo dell’inconscio tradotto in immagine.

Allo stesso modo, i flashback e i flashforward funzionano come ricordi improvvisi o premonizioni, proprio come capita nei sogni. In Il Padrino – Parte II (1974), invece, le sequenze che raccontano il giovane Vito Corleone si intrecciano con quelle del figlio Michael, creando una sovrapposizione temporale che rispecchia il modo in cui la memoria lavora: non cronologicamente, ma per associazioni, richiami, risonanze.

Vogliamo continuare a sognare da svegli

Alla fine, la domanda “perché ci piace andare al cinema?” trova tante risposte, ma tutte convergono su un punto: perché il cinema è un’esperienza unica, è un sogno a occhi aperti.

Ci piace andare al cinema perché, per due ore, possiamo smettere di essere soltanto noi stessi e diventare altri: eroi, amanti, mostri, spettatori invisibili che spiano dal buco della serratura. E lo facciamo insieme ad altri corpi, altri sguardi, altre persone. In sala, nel buio, diventiamo una comunità che sogna all’unisono, ed è forse questa la ragione più semplice e più vera: ci piace andare al cinema perché ci ricorda che la vita può sempre trasformarsi in un racconto capace di sorprenderci e di farci sentire parte di qualcosa.

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