CULTURA

Maria Callas. Gli ultimi giorni, una vita intera

La fragilità della mente e della voce, le fratture che diventano voragini e ne determinano il crollo definitivo. L’ultima settimana di vita della Callas viene raccontata in Maria, film diretto da Pablo Larraín e scritto da Steven Knight (Spencer, Locke e Peaky blinders), in concorso a Venezia 81. Dopo Jackie (Kennedy) e Spencer (Lady D) il regista cileno - appassionato di lirica sin dall'infanzia, quando frequentava il Teatro dell'opera di Santiago insieme alla famiglia - chiude la sua trilogia di biopic dedicati a iconiche figure femminili del Novecento con un atto che sembra andare in altra direzione rispetto ai precedenti perché, pur condividendone tormento e solitudine, non prevede riscossa né ripartenza. "Mi sembra il finale giusto - spiega -, è anche il mio primo film su una artista e questo crea una dinamica differente dal punto di vista della connessione con il personaggio e la storia".

Larraín definisce il suo film una "celebrazione della vita" della più grande soprano di tutti i tempi, ma qui la Callas viene svelata mentre si muove come un fantasma tra le stanze del magnifico appartamento di Parigi, dove morirà il 16 settembre 1977, a 53 anni, la prigione dorata scelta per isolarsi dal resto del mondo. Le glorie della diva restano nei ricordi e nelle sue visioni, a noi è consegnato il tempo che separa l'ultimo atto dall'emozione esplosiva del finale, con una struggente performance alla finestra. La sensazione di essere di fronte a un'opera unica ci raggiunge subito, già nei primi minuti del film, con una scena che conferma il talento registico e, soprattutto, la straordinaria scrittura: in una Parigi di inizio settembre, dai colori già autunnali, un coro maschile immaginario e potente si forma e si esibisce in un istante, prima di disperdersi come un sogno interrotto all'improvviso.

Se il canto divino ne ha definito la carriera, la donna che si avvicina alla morte ricerca e desidera esibirsi in un "canto umano", tratteggiando una sorta di autobiografia. Vulnerabile, magrissima, sofferente, ossessiva - disperatamente alla ricerca della voce perduta, si esibisce davanti alla domestica Bruna cercandone l'approvazione - e in preda alle allucinazioni, immagina di concedere una lunga intervista al giovane giornalista Mandrax, che la segue ovunque, proprio come il farmaco con azione sedativa-ipnotica da lei assunto in dosi eccessive. Attorno all'isolamento volontario e a una sorta di tempo sospeso e di attesa in cui veniamo calati per poco più di due ore, si sviluppano i sette giorni finali e una storia fatta di ricordi, successi, abbandoni, una vicenda umana e artistica attraversata da glorie e dolori (i traumi di giovinezza, l'abbandono da parte di Onassis e la perdita del figlio appena nato), popolata anche da altre voci, oltre la sua, svolte e passaggi rievocati nel presente di Maria che sembra fatto di ovatta.

"Molte delle opere interpretate da Maria Callas sono tragedie - spiega Larraín -, il personaggio principale muore sul palco nell'ultima scena. Le narrazioni di quelle opere sono molto diverse dalla sua vita ma ho scoperto che c'è sempre un ponte di relazione tra lei e i personaggi che ha interpretato".

Dopo la separazione da Aristotele Onassis, Callas rilascia una intervista (la trovate qui, al minuto 7.45) in cui si chiede perché mai avrebbe dovuto (ri)sposarsi (aveva già un divorzio alle spalle) e restare accanto a un uomo per tutta la vita. Si mostra sicura, in verità fu proprio l’abbandono subìto a determinare l’inizio della sua fine. La coda di sofferenza e smarrimento provocata da quella separazione, il matrimonio di lui con Jackie Kennedy (e qui le vite delle donne raccontate da Larraín si incrociano), di cui la Callas apprende solo dalla stampa, e il graduale successivo addio alle scene la portano ad abbondare il mondo fuori, la vita pubblica e l'arte, rinchiudendosi nelle sue stanze in compagnia dei domestici. In Maria sappiamo già come andrà a finire, gli eventi raccontati sono noti: la storia è questa, la conosciamo, ma quello che ci tiene incollati, suscitando una sorta di commozione sommessa e costante, è lo stato di continua implosione, un dolore muto che pretende di essere lasciato in pace, di fare il suo corso senza interferenze: né del medico, né dei fedelissimi domestici Ferruccio e Bruna, interpretati rispettivamente da Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, che le riservano cure e attenzioni amandola teneramente e accudendola come una figlia. 

A vestire i panni di Maria Callas (letteralmente, perché la ricerca sui costumi, e più in generale lo stile, è sorprendente) è Angelina Jolie: questo non è un dettaglio di poco conto. Se da un lato il personaggio leggendario si confronta con la personalità prorompente dell'interprete, dall'altro è forse proprio questo aspetto a rendere la performance straordinaria. Callas e Jolie si fondono, anche nelle voci. Lo studio rigoroso dell'opera lirica e la cura per la pratica canora portata avanti per mesi dall'attrice, per poter affrontare al meglio un ruolo tanto impegnativo, sono stati celebrati con otto minuti di applausi in Sala Grande a Venezia e Jolie travolta dall'emozione, tra le lacrime. 

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