CULTURA

“Non sognatelo, siatelo”: 50 anni di Rocky Horror Picture Show

Primissimo piano su una bocca femminile dalle labbra rosso fuoco che scandisce: “la storia è strana, le canzoni sono super, la scenografia è favolosa, il cast è completamente pazzo”. Sono solo pochi secondi del trailer di The Rocky Horror Picture Show ma dicono già molto del film che mezzo secolo fa usciva al cinema e, dopo un inizio in salita, è entrato nel mito.

È la fine dell’estate del 1975 quando arriva nelle sale, prima del Regno Unito (14 agosto) e poi degli Stati Uniti (26 settembre), la trasposizione cinematografica del musical The Rocky Horror Show scritto da Richard O’Brien e diretto per il grande schermo da Jim Sharman. Lo spettacolo originale aveva debuttato nel ’73 a Londra in un piccolo teatro: un musical glam rock e irriverente, che mescola fantascienza e horror di serie B con l’estetica camp. Il successo teatrale portò rapidamente alla versione cinematografica, girata con un budget ridotto, ma con una grande libertà che sfidava le convenzioni della Hollywood di allora.

La vicenda ruota attorno ai fidanzatini Brad Majors e Janet Weiss che nella più classica delle notti buie e tempestose si perdono e cercano aiuto in un castello abitato da personaggi bizzarri, tra cui il dottor Frank-N-Furter e la sua creatura Rocky – un chiaro rimando al Frankenstein di Mary Shelley. Da qui in poi una girandola di eventi sempre più surreali mescolano musical e satira sociale in un crescendo pieno zeppo di citazioni cinefile. Una delle tante curiosità che circondano il film è che uno dei poster creati per la promozione nelle sale mostra la stessa bocca del trailer sopra lo slogan “a different set of jaws” (cioè, un diverso tipo di mascelle), perché voleva strizzare l’occhio al titolo inglese del film Lo squalo (Jaws) uscito anch’esso nel 1975 e che aveva subito sbancato i botteghini.

Il trailer di "The Rocky Horror Picture Show"

Dal teatro al cinema, dal margine al mito

All’epoca della prima distribuzione nelle sale inglesi e americane, The Rocky Horror Picture Show fu un fiasco: proiettato in pochi cinema, accolto con freddezza sia dalla critica che dal pubblico, sembrava destinato a finire rapidamente nel dimenticatoio. Ma qualche mese dopo, nella primavera del ’76, si tenta un rilancio proiettandolo nel cosiddetto spettacolo di mezzanotte, o midnight movie. Si trattava di solito di produzioni a basso costo e di scarsa qualità, ma in alcuni casi questi film poco considerati sono diventati invece dei fenomeni di culto. Come nel caso del RHPS (spesso chiamato così per brevità) che ancora oggi, a 50 anni di distanza, continua a riempire cinema e teatri con proiezioni interattive, spettacoli dal vivo e raduni di fan adoranti.

Sempre nel 1976 il film arriva anche nelle sale italiane, dove non sarà mai doppiato (una vera rarità) non solo per quanto riguarda le canzoni, ma anche i dialoghi. Le proiezioni in Italia sono dunque da sempre soltanto sottotitolate, anche se in una prima edizione le traduzioni lasciavano molto a desiderare e infatti negli anni ’90 sono state riviste e i sottotitoli riscritti con più cura. Nel nostro Paese uno dei cinema che viene di solito ricordato assieme al RHPS è il Mexico di Milano che dal 1980 lo proietta praticamente ogni settimana, spesso con un cast “alternativo” a guidare le coreografie del pubblico.

Sì perché la tipica esperienza RHPS è completa solo se anche il pubblico partecipa: chi assiste allo spettacolo recita le battute insieme agli attori sullo schermo, canta, balla e lancia oggetti in sala, a volte anche travestendosi come i personaggi del film. Ecco dunque dentro e fuori dallo schermo i vari Frank-N-Furter, con i suoi corsetti e il trucco pesante, Brad e Janet ingenui e sperduti, il muscoloso Rocky e i fratelli inquietanti Magenta e Riff Raff. E così quella che poteva essere una pellicola dimenticabile si è trasformata negli anni in una specie di rito collettivo, un’esperienza comunitaria che supera i confini del cinema tradizionale.

L’importanza per la comunità LGBTQ+

Il pubblico che da mezzo secolo ama The Rocky Horror Picture Show è molto ampio, ma sicuramente c’è una grande fetta di fan che fa parte della comunità LGBTQ+: come mai? Per capirlo ne abbiamo parlato con Mauro Meneghelli, direttore artistico del festival internazionale GenderBender, a cui abbiamo chiesto come ha fatto il RHPS a diventare mainstream da fenomeno underground. Ci risponde che “il film, e prima il musical, si è trovato in un incastro felice: quello di chi è assolutamente sensibile ai tempi che sta vivendo, ma è un passettino avanti o un passettino di traverso, senza essere l’avanguardia talmente avanti che non la riesci nemmeno a vedere”.

Meneghelli continua contestualizzando il film nel momento storico in cui è uscito: “sicuramente raccoglieva da tutto il movimento per la liberazione sessuale, dalle cause femministe e anche dal movimento LGBT che aveva mosso i suoi primi passi. Ma nel momento in cui appare il Rocky Horror Picture Show c’è secondo me uno slittamento di estetiche che anticipano in parte anche una concezione di queer – o ciò che chiaramente noi ora rileggiamo come queer, per come lo si intende da fine anni ’80 inizio anni ’90... ma il queer c’era già allora, eccome!”.

Sicuramente possiamo definire queer personaggi come Frank-N-Furter che incarna una sessualità fluida e libera, tanto che nel suo castello seduce sia Brad che Janet (interpretata nel film da una giovanissima Susan Sarandon) iniziando entrambi a un mondo dove desiderio e piacere non seguono regole, ma si esprimono senza vergogna. Eppure questi personaggi queer “non sono perfetti, non sono dei santi, non si devono difendere da tutto e da tutti – secondo Meneghelli – ma anzi giocano un po’ con la mostrificazione dei corpi. C’è comunque un che di alieno in tutti i personaggi e questo non viene solo rivendicato, ma è esattamente uno degli elementi chiave del film”. E infatti molti di loro provengono dal pianeta Transexual, nella galassia Transilvania.

Il RHPS poi gioca anche con i linguaggi della fantascienza e dell’horror e per Meneghelli è molto interessante che “questi elementi di letteratura o di cinematografia di genere aiutino a fare un ragionamento sui generi, negli ultimi anni ci sono state molte opere che hanno fatto questo esercizio. Sicuramente il Rocky Horror, fatto a metà degli anni ’70, è stato un caposaldo e un’opera con tutti si sono poi dovuti confrontare. Nato da un certo contesto sociopolitico, raccoglie gli immaginari e le spinte creative dei movimenti, ma si spinge un filino più avanti. E anche da lì probabilmente viene il suo successo”.

Cos’ha ancora da dirci il Rocky Horror?

Possiamo dire che questo film ha sicuramente aperto la strada a nuove forme di rappresentazione artistica per le istanze della comunità LGBTQ+, ma forse oggi mostra anche la sua età? Abbiamo chiesto un parere a Mauro Meneghelli su quali sono i territori più fecondi dove si può spingere ancora un po’ più in là il discorso iniziato dal RHPS, e ci dice che in realtà “è cambiato il contesto culturale attorno e sappiamo che il capitalismo sussume tutte le battaglie, tutte le alterità e lo fa ai propri bisogni. Ma 50 anni dopo il Rocky Horror continua a essere un esempio che può ancora insegnare, perché divertendo ed emozionando riesce a far passare dei messaggi importanti”.

Il direttore artistico del festival bolognese – che da oltre vent’anni esplora la varietà delle identità di genere, degli orientamenti sessuali e delle rappresentazioni dei corpi – aggiunge che questi messaggi “oggi probabilmente potrebbero essere diversi, come la disabilità, la razzializzazione o l’antispecismo, ma che in nuce potrebbero anche esserci già. La grande questione che oggi non emerge più è quella di classe, forse avere un nuovo Rocky Horror con gli operai, la borghesia e i super ricchi della Silicon Valley potrebbe essere interessante (visto che qualcuno continua a voler fare le missioni nello spazio, ma con ottica colonialista)”. Anche se i nuovi razzi creati da Musk e colleghi sono molto diversi dal castello-astronave del dottor Frank-N-Furter.

Qual è allora la lezione ancora viva di The Rocky Horror Picture Show? Ci viene in aiuto ancora una volta Meneghelli il quale ammette che “ogni volta che vedo il film mi fa ridere ma anche piangere. Perché riesce a evitare un piano puramente intellettuale, tiene insieme dei messaggi chiari con un portato emotivo che coinvolge, insomma ciò che poi arriva a tutti”. E conclude citando una delle scene finali in cui la canzone Don’t Dream It, Be It (cioè Non sognatelo, siatelo) è diventata “uno slogan immarcescibile, eterno: lo puoi pensare a un livello sia individuale che comunitario, ed è talmente icastico che dà un messaggio chiarissimo ma allo stesso tempo dice di me e quindi mi commuove, dice delle persone che ho a fianco e di nuovo mi commuove, e lì fa una magia che è sia politica che poetica”.

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