Quell’alchimia enigmatica che tramuta un libro in film

"Il Gattopardo" di Luchino Visconti, dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (foto: “The Leopard, 1963” di Brett Jordan, CC BY 2.0)
Tra le tante polemiche accese durante l’ultima Mostra del Cinema di Venezia ce n’è stata una, sicuramente minore quanto a impatto mediatico, ma di estremo interesse per le riflessioni (meta)cinematografiche che suscita. Si tratta delle critiche al film Lo Straniero di François Ozon, tratto dal romanzo di Albert Camus. A dispetto delle affermazioni del regista (“tutti gli adattamenti sono dei tradimenti”), c’è chi ha osservato che la rilettura di Ozon sarebbe in realtà estremamente fedele all’originale, e mancherebbe dunque di quel respiro creativo che permette di rielaborare un classico introducendovi elementi interpretativi nuovi e contemporanei: un’accusa, peraltro, estesa all’altro Straniero cinematografico, quello di Luchino Visconti del 1967. Di qui il quesito-tormentone: in che misura l’adattamento cinematografico di un’opera di altro genere (romanzo, dramma, musical, opera lirica…) può, o deve, allontanarsi dalla sua fonte?
L'esempio degli allestimenti teatrali
È un tema, che, se riflettiamo, si estende ad ambiti diversi dal cinema, e riguarda ogni rielaborazione che un artista compie di un’opera precedente. È il caso degli allestimenti teatrali: ognuno è, di fatto, una rivisitazione del testo messo in scena, e la storia dell’interpretazione di Re Lear o La Tempesta passa attraverso le innumerevoli versioni in cui geniali registi (non solo teatrali) hanno aggiunto, modificato, stravolto letture consolidate nel tempo. Pensiamo, per rimanere ai due esempi, al Lear che Akira Kurosawa ambienta nel Giappone feudale (Ran, 1985), o alla messinscena degli incanti di Prospero diretta da Giorgio Strehler (1978). Ma allora, tornando alla questione di fondo, cos’è lecito aspettarsi da un adattamento cinematografico? Fedeltà, coerenza, invenzione, tradimento, un po’ di tutto questo?
Ogni adattamento è un'interpretazione
La domanda trova una risposta secca in L’adattamento cinematografico non esiste di Silvia Vacirca (Mimesis). Vacirca, docente e storica che predilige le relazioni tra cinema, arti e costume, compie un’indagine ad ampio raggio tra teorie del cinema, riflessione degli intellettuali, interventi degli addetti ai lavori e comparazioni tra diversi adattamenti della stessa opera: per concludere che non esiste, e non può esistere, un protocollo consolidato che crei uno standard “corretto”, dal momento che molteplici sono i significati profondi che ogni interprete può rinvenire in un testo, e altrettante, dunque, sono le vie per restituire almeno una parte di questi significati. Un rifiuto, quello della necessità di una presunta “fedeltà” nell’adattamento, che si ritrova già in André Bazin, quando il critico e teorico ne critica in radice il concetto, funzionale solo, a sua detta, a preservare il testo base da un presunto svilimento che il cinema, secondo i “puristi”, andrebbe a operare.
Bergman, Visconti, Fellini
Vacirca cita numerosi esempi di adattamento creativo, ben diverso da una semplice trasposizione, a iniziare dai due casi filmici citati da Umberto Eco: Ingmar Bergman che, dovendo ridurre per il cinema una sua pièce teatrale, in Il Settimo Sigillo (1957) immagina la famosa scena del cavaliere che gioca a scacchi con una figura che, nel rappresentare la Morte, si rivela di sesso maschile, contravvenendo a un’iconografia consolidata che, in ambito europeo, privilegia il femminile; e poi Morte a Venezia (1971), in cui la versione di Luchino Visconti si allontana dal romanzo di Thomas Mann sotto molti aspetti a cominciare dal protagonista, Gustav von Aschenbach, non più studioso e scrittore ma musicista, non borghese ma aristocratico, già malato all’inizio della narrazione. Va ricordato che in tutto il film le musiche, e in particolare quelle di Mahler, costituiscono non tanto lo sfondo del racconto, quanto una presenza assolutamente preponderante. È un buon esempio, secondo Eco, di come l’autore dell’adattamento a volte non si prefigga una continuità con il testo base, ma lo utilizzi come spunto per inserire elementi del tutto personali.
Un’altra riflessione fondamentale è quella sulla sceneggiatura, e il suo ruolo-ponte nel trasferire un soggetto sul grande schermo. Per Bernardino Zapponi, sceneggiatore di Fellini e Dino Risi, a differenza del dramma, che è opera compiuta, la sceneggiatura non ha uno status letterario autonomo senza essere realizzata in film. Il ruolo del regista cinematografico, dunque, è fondamentale, è il “vero autore del film”, mentre nel caso del teatro il regista fornirebbe una semplice “interpretazione” del testo, il quale è un lavoro del tutto autosufficiente (qui si nota una concezione di regia teatrale tradizionale, e sicuramente molto diversa dall’idea del “teatro di regia” che si è progressivamente imposta sulle scene). Quasi a smentire questa visione riduttiva del ruolo dello sceneggiatore, però, è la testimonianza dello stesso Zapponi sul suo lavoro per Toby Dammit, episodio diretto da Federico Fellini nel film Tre passi nel delirio (1968). Si tratta di un’opera ispirata a un racconto di Edgar Allan Poe, Mai scommettere la testa con il diavolo. Rielaborazione del tutto libera rispetto all’intreccio originale, è giustificata da Zapponi spiegando che “Poe non può dare soggetti, ma stimoli; (…) influenzare con le sue angosce l’autore del film; suggerirgli visioni, idee, incubi, persone”. È un risultato che Zapponi e Fellini colgono pienamente, evocando l’orrore non tramite ambientazioni stereotipate, ma facendo appello a dimensioni oniriche, visionarie, mentali. In sintesi, nota Vacirca, “è una dimostrazione di cosa significhi adattare non solo un racconto ma uno stile letterario, una poetica”.
"Shining" e la rabbia di Stephen King
Lo stesso ragionamento si può applicare all’esempio principe del libro, Shining di Stanley Kubrick (1980), tratto dal romanzo di Stephen King. Qui il caso è ancora più emblematico, perché riguarda la querelle che ha opposto a lungo proprio King a Kubrick: l’autore del romanzo non ha mai approvato l’adattamento del regista, muovendogli molte critiche radicali. In particolare, King ha sempre contestato a Kubrick un atteggiamento troppo “laico” nella descrizione della follia omicida del protagonista Jack Torrance. Secondo King, il problema di fondo era che Kubrick, per formazione, non era propenso a credere nel soprannaturale, e questo priverebbe Shining di una componente fondamentale. Una prova, secondo King, è che a suo dire nel film non è presente alcuna evoluzione psichica nella figura di Torrance, che sarebbe già pazzo al momento di entrare in scena: venendo meno, dunque, ogni implicazione demoniaca, o comunque metafisica nella sua trasformazione in omicida.
King potrà rifarsi diciassette anni dopo l’uscita di Shining, quando nel 1997 gli verrà offerto di realizzare, sotto il suo controllo, una miniserie tratta da Shining. Il risultato, a detta dei critici, è paradossale: King compie un’opera molto meno coerente rispetto alla sua poetica rispetto a quanto avesse ottenuto Kubrick, priva delle raffinatezze del terrore evocato, psicologico, ambientale su cui il primo Shining aveva puntato, e invece zeppa di effetti speciali altisonanti. Inoltre, dove Shining suscitava emozioni senza spiegare nulla, lasciando spazio alle suggestioni visive e alle psicologie dei personaggi, King decide di chiarire fin troppo, profondendosi in dettagli, storie secondarie, dialoghi sovrabbondanti. In una parola, ciò che manca alla versione di King è il senso del mistero, del terrore inspiegato e incomprensibile: proprio ciò che, a dire dello scrittore, Kubrick aveva omesso. Il fatto che, a distanza di decenni, lo Shining di Kubrick rimanga un classico del cinema, mentre la versione di King sia scivolata nell’oblio, è il miglior esempio di come non esista un adattamento cinematografico “corretto”; e che nemmeno il più profondo conoscitore dell’opera originaria (l’autore) può garantire quei meccanismi creativi, intuitivi, artistici attraverso cui un testo può diventare un grande film.