SOCIETÀ

Dal Congo all'Uganda. Ebola, il virus che fa ancora paura

Ha fatto la sua ricomparsa nell'Africa centrale nell’agosto del 2018 il virus Ebola, diffondendosi in particolare nel Nord-Kivu, provincia della Repubblica Democratica del Congo; una malattia endemica in questo Paese che ad oggi, a quasi un anno di distanza, ha provocato 1.416 decessi e 2.153 casi di contagio (dati Oms aggiornati al 23 giugno). Si tratta della seconda epidemia di questo tipo, per dimensioni, dopo quella che tra il 2014 e il 2016 aveva colpito l’Africa Occidentale, e che, diffondendosi tra Sierra Leone, Liberia e Guinea Bissau, ha portato alla morte di oltre 11mila persone.

Oggi, nella gestione di quella che è considerata la decima epidemia di questo tipo a colpire il Congo, sono a disposizione vaccini (introdotti in questa regione l’8 agosto 2018), ma anche maggiori aiuti internazionali, finanziari, tecnici e materiali, oltre che protocolli sanitari definiti ed efficienti e maggiore conoscenza ed esperienza. L’Onu, inoltre, ha nominato un vice-rappresentante speciale del segretario generale, David Gressly, che lavorerà insieme alla comunità internazionale e all’Organizzazione Mondiale della Sanità per combattere l’epidemia. Nonostante ciò, risale a qualche settimana fa, nello specifico al 13 giugno scorso, il primo caso di contagio in un altro Paese, l'Uganda dove una donna di cinquant’anni infetta dal virus è morta, un giorno dopo la morte del nipote di cinque anni. Attualmente (dati al 21 giugno) nel Paese non sono stati registrati nuovi casi di contagio e nemmeno casi sospetti. Le persone entrate in contatto con i casi di Ebola vengono moritorate quotidianamente e nel distretto di Kasese sono stati vaccinati oltre 450 soggetti.

Giovanni Putoto, responsabile programmazione dell'Ong Medici con l'Africa Cuamm appena rientrato da una missione in Uganda e Michele D'Alessandro, Settore Progetti Cuamm.

Cos'è cambiato oggi nella diffusione di questa epidemia, rispetto a cinque anni fa, dal punto di vista sanitario? Si può dire che qualcosa è cambiato, ma non basta a contenere un'epidemia terribile come quella di Ebola. Nel 2018, per la prima volta, sono state messe a disposizione del Ministero della Salute del Congo 4.000 dosi di vaccino sperimentale, ma nonostante gli sforzi, un anno dopo, il livello di guardia rimane molto alto e le contromisure per contenere l’epidemia rischiano di non essere sufficienti, a causa dell’instabilità in cui si trova il paese e dello scarso accesso ai servizi sanitari, da parte della popolazione. Un ulteriore sforzo è stato fatto, da parte dell’Oms e dell’Ufficio regionale per l’Africa, che hanno fornito supporto tecnico per sviluppare e attuare piani di emergenza nazionali su quattro dei nove Paesi confinanti (Burundi, Ruanda, Sud Sudan e Uganda). Memori delle critiche sui ritardi e sulle inadeguatezze degli interventi del 2014, questa volta la reazione della comunità internazionale e dei principali attori coinvolti nella regione è sembrata rapida e ben coordinata dall’Oms. La notizia dello sconfinamento del virus dal Congo all’Uganda ha fatto però suonare un campanello di allarme. Il 13 giugno una donna di cinquant’anni infetta dal virus è morta nell’Uganda occidentale, un giorno dopo la morte del nipote di cinque anni.

Quali sono i problemi con cui si confronta il Congo rispetto alla cura e al contenimento della diffusione del virus? Questo territorio è fortemente instabile dal punto di vista politico da molti anni e sono migliaia le persone che da queste regioni continuano a scappare e a non curarsi in modo corretto. Come incidono questi fattori? Con otto milioni di abitanti, il Nord Kivu è una delle aree più densamente popolate del Congo e dell’intera regione dei Grandi Laghi. Proprio per questa densità e per le strette relazioni tra gli abitanti delle quattro province (Ituri, Sud Kivu, Maniema e Tshopo) e dei Paesi confinanti (Uganda e Ruanda) il rischio per la salute pubblica in queste zone è molto alto. Inoltre, qualsiasi destabilizzazione incide su un tessuto sociale e politico estremamente delicato e strettamente interconnesso con ripercussioni sulla crisi umanitaria che si protrae nella regione e sui movimenti transfrontalieri da e per i paesi limitrofi, in particolare Uganda e Sud Sudan. Non è certo la prima volta che il virus colpisce l’Uganda: le epidemie del 2000, del 2007 e del 2012 hanno reso necessario creare delle strutture di risposta rapida nel Paese. Le campagne di informazione sulla salute pubblica trasmesse nelle aree a rischio sono state fondamentali per prevenire la diffusione della malattia nell’agosto 2018. Ma la situazione rimane critica e il rischio molto elevato. Venerdì 14 giugno il Comitato di Emergenza dell’Oms ha espresso profonda preoccupazione per l'epidemia di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, ma ha anche dichiarato che questa non costituisce un’emergenza sanitaria pubblica di preoccupazione internazionale (PHEIC - Public Health Emergency of International Concern), suscitando pareri contrastanti da parte di alcuni osservatori ed esperti internazionali.

Qual è la situazione oggi nei paesi vicini? Quali i rischi? Per capire meglio i rischi legati all’ennesima riapparizione di Ebola nella regione e allo sconfinamento del virus dalla RDC all’Uganda bisogna allargare lo sguardo alle dinamiche transfrontaliere. Uganda e Congo, ad esempio, condividono 2.698 km di frontiera: un confine sterminato che corre anche sulle acque del Lago Edward e del Lago Albert, punti di ingresso preferenziali dei rifugiati congolesi in fuga dai conflitti in corso nella RDC. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha analizzato i flussi misti (gruppi misti di persone in transito, che includono sia rifugiati che migranti (secondo definizione dell'UNHCR) di migrazione in Uganda attraverso sei punti di monitoraggio lungo il confine con la RDC. Nelle due settimane dal 15 al 30 novembre 2018, sono stati osservati 12.219 movimenti con il 65% in entrata in Uganda e il 35% in uscita. Il 69% di quelli che uscivano dall'Uganda viaggiavano verso le province del Nord Kivu o dell'Ituri, mentre il 17% di coloro che entravano in Uganda lo facevano per ragioni legate al conflitto congolese. Attraversare il confine tra i due Paesi fa parte della vita quotidiana di molte persone che si spostano per attività commerciali, per frequentare la scuola e l'università, o per cercare migliori strutture sanitarie in Uganda rispetto a quelle disponibili nella RDC. È abbastanza comune che i membri della stessa famiglia vivano tra una sponda e l’altra del confine e che, a causa delle insicurezze associate a quelle stesse aree alcuni congolesi, (in particolare uomini d'affari e commercianti) scelgano di trascorrere la giornata in Congo e la notte in Uganda. Sia l’Uganda che la RDC fanno pagare il visto in entrata per i rispettivi cittadini del Paese confinante, ma con notevoli eccezioni soprattutto per gli abitanti “di frontiera”: i commercianti che attraversano il confine nei giorni di mercato, ad esempio, non hanno bisogno di presentare né il visto né la documentazione formale, e le persone che vivono nella zona di confine possono ottenere autorizzazioni giornaliere per attraversare il confine gratuitamente e viaggiare all'interno di un raggio di 15 km. Le autorità locali presso le dogane e i principali punti di accesso speculano spesso su un’eccessiva "tassazione" – la corruzione è diffusa su entrambi i lati della frontiera – incentivando così i traffici e l’attraversamento illegali tra i due Paesi. In questo contesto, monitorare la diffusione della malattia (capire dove circola il virus, tracciarlo, isolarlo e contenerlo) diventa estremamente complicato. L’incertezza politica e i conflitti all’interno dei vari Paesi della regione non fanno che destabilizzare il quadro generale e alimentare il flusso di rifugiati e migranti da un Paese all’altro. L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha registrato l’arrivo in Congo di una nuova ondata di rifugiati dal Sud Sudan. Nei primi mesi del 2019, migliaia di persone hanno continuato ad attraversare il confine per fuggire dagli scontri e dalle violenze perpetrate contro i civili. Secondo l’UNHCR, il conflitto in Sud Sudan ha generato oltre 2,2 milioni di rifugiati a partire dal 2013.

Il Cuamm è stato fortemente impegnato in Sierra Leone tra il 2014 e il 2016 nella lotta contro Ebola. Lo siete anche oggi di fronte a questa nuova epidemia? L’esperienza di Medici con l’Africa Cuamm nella lotta contro il virus Ebola in Sierra Leone ci dice che in questi casi è necessario mantenere alto il livello di guardia. I primi casi di sconfinamento dell’epidemia dalla RDC all’Uganda sono un campanello di allarme che non può e non deve essere sottovalutato. Il contenimento della malattia rappresenta quindi una sfida per tutta la regione, e in particolare per il Sud Sudan, dove le strutture di risposta rapida e prevenzione sono ancora molto fragili. Medici con l’Africa Cuamm è impegnato da anni in Sud Sudan per rafforzare le strutture sanitarie locali attraverso attività di controllo e prevenzione dell’infezione in tutti gli ospedali, con l’obiettivo di migliorare le procedure e le pratiche proposte dall’Oms, e di fornire le strutture locali con le attrezzature e gli equipaggiamenti sanitari minimi necessari. Nel contesto dell’attuale epidemia di Ebola, diventa quindi essenziale la collaborazione e il coordinamento con i Paesi limitrofi e con i partner internazionali, per sviluppare e avviare piani di emergenza nazionali e coordinare azioni di prevenzione, monitoraggio e supporto a livello locale. Queste attività appaiono ancora più urgenti e necessarie se guardiamo alla diffusione di Ebola a cui abbiamo recentemente assistito nell’Africa occidentale – principalmente in Guinea, Liberia e Sierra Leone – dove la propagazione dell’epidemia è stata causata soprattutto dalla grande fragilità del sistema sanitario, e in particolare, dall’impreparazione rispetto alle caratteristiche epidemiologiche dell’Ebola e alle relative azioni specifiche di contenimento (l’isolamento dei pazienti, le attrezzature diagnostiche e la gestione clinica dei malati, l’identificazione e la quarantena dei contatti, la distribuzione dei presidi sanitari per la protezione dello staff, la sensibilizzazione e la mobilizzazione delle comunità, la messa in sicurezza dei funerali e della tumulazione delle salme).  Alla luce dell’esperienza in Sierra Leone, il lavoro di Medici con l’Africa Cuamm per la prevenzione della diffusione di Ebola in Uganda e in Sud Sudan si concentra sul miglioramento del livello delle procedure di prevenzione e controllo; sul monitoraggio attivo della sorveglianza dei casi sospetti; sulla stretta collaborazione con le autorità e con le altre organizzazioni presenti nelle comunità; sulla preparazione di piani e azioni di risposta rapida in caso di necessità, e sul relativo equipaggiamento di protezione. L’obiettivo principale rimane comunque quello della sensibilizzazione delle comunità locali sulle caratteristiche della malattia, e sulle azioni necessarie al contenimento, in modo che le informazioni fondamentali arrivino a tutti, non solo agli addetti del settore sanitario.  Anni di esperienza sul campo ci dicono che questa è la chiave per bloccare l’epidemia di Ebola – prevenzione, sensibilizzazione e rafforzamento delle strutture sanitarie locali.

 

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