Il cantiere dell'Osservatorio di Asiago. Foto di Daniele Calabi; da: Phaidra, collezioni digitali dell'Università di Padova
Daniele Calabi non c’era il 27 maggio 1942 all’inaugurazione dell’Osservatorio astrofisico di Asiago. Aveva dedicato a quel progetto mesi e anni di disegni, prove, misure, schizzi, modelli a scala reale. Perché quella che doveva realizzare era una struttura complessa, che doveva reggere una cupola girevole di 15 metri e 50 tonnellate. L’aveva pensata in ogni particolare, pietra su pietra. Perché Calabi era un architetto che curava i dettagli al limite della pignoleria, un architetto un po’ artigiano con un’adorazione particolare per la materia e i materiali, soprattutto quelli tradizionali. L’Osservatorio, per il quale aveva scelto una pietra estratta da cave locali, grigio-rosata, era costituito da due edifici: la torre di osservazione e un fabbricato destinato agli uffici e alle abitazioni degli astronomi.
Ma quel giorno, ad Asiago, lui non c’era. E nel discorso di inaugurazione del rettore Carlo Anti non fu nemmeno pronunciato il suo nome. Perché Daniele Calabi aveva sì lavorato al progetto per due anni, dal 1936 al 1938, ma era ebreo.
Giornale Luce del 12 giugno 1942
Quel giorno Calabi e la sua famiglia erano parecchio lontani, in Brasile, fuggiti ai primi segni di pericolo. Il 14 luglio 1938, infatti, era stato pubblicato il Manifesto della Razza e già nel periodo fra settembre e dicembre erano stati promulgati i principali decreti “a difesa della razza italiana”. L’architetto si era dunque messo in contatto con il cugino, l’ingegnere Silvio Segre che, emigrato poco prima, era riuscito a creare un’impresa edilizia a San Paolo. Silvio garantì dunque un impiego a Daniele che si conquistò il diritto di residenza in Brasile anche se, in quanto straniero, non poteva esercitare la professione.
Nel frattempo in Italia, nel giugno del ’39, un decreto ordinava la cancellazione dei nomi degli ebrei dagli albi professionali entro il febbraio 1940. Si prescriveva la totale cessazione di qualsiasi prestazione professionale da parte di cittadini di razza ebraica e si dava anche la possibilità ai clienti non appartenenti alla razza ebraica di revocare l’incarico conferito prima della cancellazione dall’albo. Così nel febbraio 1940 anche il nome di Daniele Calabi sparì dai registri professionali.
Laureato in ingegneria a Padova, Calabi aveva ottenuto di essere iscritto all’Albo professionale regionale degli architetti nel 1936. Fino al 1938 aveva collaborato con l’Ufficio tecnico del “Consorzio per la sistemazione edilizia dell’Università di Padova”, che era stato costituto nel 1933 e nell’ambito del quale Calabi aveva seguito il progetto dell’Osservatorio. Nello stesso periodo aveva lavorato anche alla trasformazione dell’ex Istituto di Chimica farmaceutica di Padova in Clinica neurochirurgica (all’angolo fra via Falloppio e via Ospedale), il cui progetto venne ampiamente rimaneggiato in una realizzazione alla quale però l’architetto non poté assistere, già in esilio. Il progetto di Calabi restò fedele solo nel prospetto sul giardino, forato ritmicamente da un doppio ordine di archi a tutto sesto.
A San Paolo, a qualche anno dal suo arrivo, l’architetto ottenne di aver riconosciuto il proprio titolo e di poter quindi firmare diversi progetti, sia ad uso residenziale privato che produttivo e collettivo. L’esilio durò fino al 1948. In Italia Calabi venne però riammesso alla professione solo due anni dopo.
“ L'arte del "far muro" conserva una sua particolare validità di testimonianza umana Daniele Calabi
A capo del Consorzio per la sistemazione edilizia dell’Università di Padova era allora l’ingegnere Giulio Brunetta, col quale Calabi lavorò al grande progetto per le nuove cliniche universitarie e per il nuovo ospedale. Dal 1951 sviluppò il progetto esecutivo della clinica pediatrica, della quale condusse i lavori fra il ’53 e il ’56 e che gli valse anche il premio regionale IN/ARCH nel 1961. Con Brunetta sviluppò l’esecutivo per il policlinico presentato nel 1952 e poi modificato a passi successivi fino al 1954, per essere poi realizzato tra il 1957 e il 1961 dal solo Brunetta. Grazie a questi lavori, Calabi in qualche modo si “specializzò” nella progettazione di un’architettura ospedaliera che sviluppò anche a Perugia, Catania, Verona, Bologna, Trieste.
L’impronta precisa del suo lavoro, fatta di mattoni faccia a vista, fronti ricamati di pietra e bucati dalle ombre, sottolineata dai profili dei camini e dalle terrazze regolari, ricorre in molti altri progetti padovani, soprattutto per residenze, molte delle quali realizzate per i dipendenti universitari del CEDPI (Cooperativa edilizia dipendenti pubblica istruzione). Fra queste c’è la casa di sette piani ad appartamenti tra viale Falloppio e via Sant’Eufemia, del 1953, progettata in collaborazione con Giulio Brunetta; c’è la casa, progetto essenziale e curato, in via Jacopo Stellini; c’è l’edificio a due piani in via Rosmini: due appartamenti affiancati con ampliamento realizzato su incarico del professor Antonio Rostagni, nel 1958.
Oltre ai progetti legati al mondo universitario, Calabi progettò e realizzò a Padova una grande quantità (e qualità) di progetti, che disegnarono letteralmente il volto residenziale della città dentro alle sue mura nel corso degli anni Cinquanta. È un volto di pietra e mattoni ben allineati che tracciano linee nette, porticati curvi, logge profonde, percorsi coperti: luoghi riconoscibili che punteggiano Padova, disegnati dalla mano di un architetto taciturno e preciso che per fortuna, amicizie, famiglia e intraprendenza riuscì a sfuggire alle persecuzioni razziali.