SOCIETÀ

Davos 2020. Capitalismo e sostenibilità: un matrimonio possibile?

Si apre oggi la cinquantesima edizione dell’incontro annuale del World Economic Forum, che si svolgerà – come di consueto – a Davos, in Svizzera. Da sempre luogo di ritrovo dei maggiori protagonisti del mondo economico, quest’anno il meeting sarà incentrato sui temi che, negli ultimi anni, hanno dominato la scena politica globale con la sua crescente urgenza, cioè la questione dei cambiamenti climatici (e dei sostanziali mutamenti che essi apporteranno alla società) e il cruciale quesito ad essi collegato: come farvi fronte?

Sembra che, finalmente, una parte del mondo economico si sia resa conto del potenziale negativo che una certa declinazione del capitalismo porta con sé, e che stia ora raccogliendo la sfida di modificare il paradigma dominante per renderlo compatibile con l’irrimandabile necessità di tutelare la natura e la sua biodiversità, dalla quale dipende la nostra stessa sopravvivenza in quanto specie.

Ma cosa c’è da aspettarsi da queste dichiarazioni? Si tratta di un semplice greenwashing, oppure alle parole seguiranno i fatti? Lo abbiamo chiesto al professor Lorenzo Forni, docente di Macroeconomia all’Università di Padova.

Da sempre, il WEF è emblema di un capitalismo che mira soprattutto alla massimizzazione dei profitti (shareholder capitalism). Tuttavia, le tendenze e gli eventi degli ultimi decenni hanno chiaramente mostrato l’inadeguatezza di questo modello, la cui applicazione ha portato ad una crescita delle disuguaglianze (secondo il rapporto OCSE 2019), ad una forte accentuazione del problema ambientale e ad un generale aumento dell’instabilità sociale. Queste problematiche ricevono oggi sempre maggior attenzione non solo da parte dei teorici del capitalismo, ma anche dai suoi maggiori sostenitori: un rinnovamento è ormai imprescindibile, e proprio in questa prospettiva si inserisce il nuovo Manifesto che verrà presentato a Davos 2020. Ma il passaggio da una forma di shareholder a una di stakeholder capitalism avrà davvero degli effetti positivi, dal punto di vista sociale e ambientale?

“Non c’è da aspettarsi troppo da questi annunci. Da un lato è chiaro che, al cambiare dei valori dell’opinione pubblica, cambino anche gli obiettivi delle aziende. Cresce nella società l’attenzione verso la sostenibilità ambientale, verso il bilanciamento tra lavoro e vita privata (work-life balance), verso la diversity sui posti del lavoro, verso la qualità della vita nelle comunità locali. Di tutte queste tendenze – particolarmente pronunciate nei millennials, che sono i giovani lavoratori di oggi – le aziende devono tenere conto per soddisfare il proprio personale e per trattenere i lavoratori con maggiori competenze.

C’è poi un secondo elemento, che riguarda l’immagine – non particolarmente positiva – delle grandi corporations di oggi: in generale hanno, o hanno adottato in passato, scarsi standard ambientali; pagano poche tasse, anche a causa del fenomeno della delocalizzazione in paesi a tassazione più bassa; hanno creato dei monopoli che generano, da più parti, preoccupazione; inoltre, alcune di esse (tipicamente quelle high-tech) utilizzano le informazioni che noi forniamo gratuitamente per manipolare le nostre scelte, in ambito commerciale ma non solo. Insomma, non godono di grande reputazione: possiamo dunque ipotizzare che abbiano avviato una campagna per tentare di migliorare questa immagine.

Però non illiudiamoci. Le corporates rimangono società dominate dai risultati economici, e c’è un limite a quanto possono avere a cuore le questioni ambientali e sociali e il benessere delle comunità di cui fanno parte: questi obiettivi possono infatti comportare dei costi economici che confliggono con il profitto e con la loro competitività. Per certi versi, al contrario, venire incontro ai valori dei propri dipendenti e delle comunità locali può essere un fattore di vantaggio competitivo”.

 

Nel testo del nuovo Manifesto si insiste molto sulla responsabilità degli imprenditori nei confronti della società in cui operano: l’obiettivo primario delle imprese non dovrebbe, cioè, limitarsi al perseguimento del profitto, ma estendersi a scopi più vasti, come la protezione della biosfera, la giustizia sociale, la promozione di un benessere diffuso e condiviso. È possibile coniugare la sostenibilità (nel suo significato più ampio, esteso alla dimensione ambientale, sociale ed economica) con la ricerca del profitto?

“Ovviamente non possiamo e non vogliamo delegare agli imprenditori il compito di definire, né tanto meno di raggiungere, obiettivi sociali e ambientali di carattere generale. Un imprenditore può forse contribuire ad affrontare i problemi della comunità locale in cui opera, ma evidentemente non può avere un ruolo a livello nazionale o globale. La politica, attraverso i sistemi democratici, rimane responsabile nel definire gli obiettivi e gli strumenti per raggiungerli.

Se poi ci si domanda se sia possibile coniugare la sostenibilità – ambientale e sociale – con la ricerca del profitto, la risposta è che non c’è alternativa. Dobbiamo puntare sulla ricerca scientifica e sul risparmio energetico per ridurre le emissioni di gas serra senza dover strangolare l’economia, e in questa direzione bisognerà fare molti investimenti. D’altra parte, dovrà anche aumentare la redistribuzione del reddito: ciò potrà avvenire non solo attraverso il ruolo redistributivo dello Stato (mediante tasse e trasferimenti), ma anche attraverso l’imporsi di norme sociali che tutelino i lavoratori, mediante il rinforzo di misure come i salari minimi e le maggiori tutele sul lavoro per le categorie svantaggiate”.

Da molte parti si sottolinea come il modello capitalistico, fondato sull’idea di una crescita lineare – incompatibile con la naturale limitatezza delle risorse della biosfera – sia insostenibile, e vada ripensato alle radici: il cambiamento di prospettiva che verrà proposto durante il meeting di Davos può essere un primo passo verso nuovi modelli economici come, ad esempio, l’economia circolare?

“Ci troviamo di fronte a due grandi sfide: in primo luogo il cambiamento climatico, ma anche le sempre più urgenti questioni sociali e distributive, cioè da una parte la questione dell’equità nella distribuzione delle risorse, e dall’altra la necessità di creare una società dove tutti possano avere una loro dignità e libertà.

Non so quanto sia diffusa un’effettiva consapevolezza riguardo ai cambiamenti che dovremo introdurre per far fronte a sfide di così vasta portata. Certo è che le aziende non possono essere il traino di questo cambiamento: devono essere i governi ad indicare gli obiettivi e a stabilire le regole per raggiungerli. Le aziende saranno attori fondamentali di questo cambiamento, contribuiranno a trovare soluzioni ai problemi, ma non sta a loro decidere in che direzione procedere”.

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