Oggi “prevale l’idea che persone senza istruzione o senza alcuna esperienza lavorativa siano perfettamente in grado di gestire un Paese di sessanta milioni di abitanti. Ci siamo assuefatti a un linguaggio sgangherato, all’ignoranza confusa per spontaneità e vicinanza al popolo (…) Ci hanno fatto credere che con l’ignoranza al potere si potesse trovare una scorciatoia e dare un colpo alle élite, agli intellettuali e ai poteri forti”. Così inizia Irene Tinagli nel suo La grande ignoranza.
Raramente un libro è arrivato così tempestivamente sul mercato come questo: è sufficiente fare 15’ di zapping fra i telegiornali per sentire una candidata alla presidenza della regione Abruzzo affermare che il suo risultato deludente è dovuto al fatto che “clientelismo e ignoranza hanno avuto la migliore” (presumibilmente intendeva dire “hanno avuto la meglio”). Cambiando canale, si intercetta la dichiarazione del presidente del Consiglio che afferma: “In quanto presidente della Repubblica, io sono il garante dell’unità nazionale” (di solito, agli esami, gli studenti di diritto o di scienza politica che non distinguono le due cariche vengono bocciati). Originale anche la lettera che il vicepresidente del Consiglio ha scritto al quotidiano francese Le Monde per ribadire il suo attaccamento alla “millenaria tradizione democratica” della Francia. Una tradizione, quindi, che non nascerebbe nel 1789 ma che invece comprenderebbe Luigi XVI, il Re Sole Luigi XIV, Carlo VIII (quello che invase l'Italia nel 1494) risalendo nei secoli fino a Carlo Magno.
“ Oggi “prevale l’idea che persone senza istruzione o senza alcuna esperienza lavorativa siano perfettamente in grado di gestire un Paese di sessanta milioni di abitanti
Niente da dire, anche il sottotitolo del libro della Tinagli, Dall’uomo qualunque al ministro qualunque, sembra più che giustificato. L’autrice ha una sua ricetta: “Ma se per una volta provassimo, banalmente, a mettere al potere dei politici preparati e competenti? Al di là dell’età, del reddito, delle auto che guidano, del partito in cui militano, del loro genere o orientamento sessuale. Semplicemente persone che hanno un minimo bagaglio di esperienze e di competenze che consenta loro di prendere non dico le decisioni migliori, ma almeno le meno dannose”. Il governo dei tecnici, insomma.
Dello stesso parere sono parecchi studiosi: Parag Khanna, per esempio, sostiene che la “tecnocrazia diventa una forma di salvezza dopo che una società si rende conto che la democrazia non garantisce il successo di un paese. E’ in quel momento che la democrazia si ammala di se stessa e vota per i tecnocrati”. Khanna, aspramente critico dell’oligarchia americana nel suo libro , sostiene che nel modno contemporaneo la democrazia non può funzionare e che “un ibrido fra la democrazia diretta della Svizzera e la tecnocrazia di Singapore –una tecnocrazia diretta- è la forma migliore di governo per il XXI secolo”.
Peccato che gli organismi tecnici che dovevano prevenire, o curare, la crisi finanziaria esplosa nel 2008 non abbbiano affatto dato buona prova di sé, imponendo –spesso con brutalità- politiche oggi largamente riconosciute come sbagliate.
“ “Un elettorato ignorante rappresenta un pericolo non solo per i votanti ignoranti stessi, ma per il paese nel suo insieme
Altri studiosi sono ancora più radicali: nel suo volume Democrazia e ignoranza politica, Ilya Somin, per esempio, afferma che “Un elettorato ignorante rappresenta un pericolo non solo per i votanti ignoranti stessi, ma per il paese nel suo insieme. Di conseguenza è difficile difendere l’accesso degli ignoranti al voto sulla base del fatto che essi sono titolari del diritto di votare liberamente, senza considerare l’impatto che il loro voto ha sulla vita di altre persone”.
Lo stesso Somin, tuttavia, ammette che “storicamente, gli esami di lingua e altre analoghe restrizioni al diritto di voto sono stati usati dalla maggioranza per escludere minoranze oppresse, in particolare gli afroamericani nel Sud degli Stati Uniti (…) e gli immigrati non anglosassoni nel Nord”.
A questa si può aggiungere un’altra obiezione: le indagini sulle competenza politica dei cittadini sono condotte in modo corretto, cioè pongono domande rilevanti? Per esempio, supponiamo che all’intervistato venga chiesto quanto sono in Italia i deputati alla Camera oppure quanti sono i senatori a vita. Se non sa rispondere, dobbiamo dedurne che è ignorante del funzionamento della nostra democrazia? Forse lo è, ma il tipo di domanda non consente di arrivare a questa conclusione.
Il nostro cittadino-tipo, per esempio, potrebbe benissimo avere un’idea assai precisa degli interessi che il governo in carica sta difendendo, dei programmi dei principali partiti e di chi intende votare alle prossime elezioni. Il numero dei deputati (630), oppure il fatto che ogni presidente della Repubblica ha il diritto di nominare cinque senatori a vita (e quindi il loro numero complessivo è variabile) sono nozioni utili per lo studente universitario ma non fondamentali per una scelta razionale al momento del voto. Sarebbe invece preoccupante se l’intervistato non sapesse quali sono i partiti al governo e quali all’opposizione perché questo ovviamente gli impedirebbe di dare un giudizio sull’operato dell’esecutivo e quindi di votare in conoscenza di causa alle prossime elezioni.
Anche Irene Tinagli è contraria al “patentino” degli elettori e propone invece di sottoporre i candidati a una carica di governo a esami di competenza, con un processo simile alle conferme da parte del Senato americano delle nomine dei funzionari selezionati dal Presidente. Anche questa soluzione, tuttavia, sembra ben poco efficace: negli Stati Uniti è noto che i Presidenti che controllano una maggioranza in Senato spesso impongono dei candidati fedeli ma del tutto inadatti al ruolo da ricoprire.
Soprattutto, sembra difficile che una crisi profonda come quella delle istituzioni rappresentative in tutte le democrazie industriali possa essere risolta da modesti ritocchi istituzionali. La domanda a cui occorre rispondere è: “Quali processi sociali determinano questa situazione?” “Come viene prodotta questa ignoranza diffusa?” Forse è giunto il momento di interrogarsi sulla condizione di emarginazione dalle decisioni politiche in cui vive la stragrande maggioranza della popolazione e sui sentimenti di rabbia confusa, e spesso autodistruttiva, a cui l’insterilimento della democrazia ha dato luogo. Temi che il volume della Tinagli, come quelli di Somin e Khanna, non affrontano.