CULTURA

Con Deon Meyer avventuriamoci nelle lingue e nella letteratura del Sudafrica / 1

Anche le letterature nazionali sono meticce, non appartengono alla stessa comunità di individui immutata per generazioni nel tempo e nello spazio. Quella italiana non inizia nel 1860 e non è formata solo da sapiens nati su questo nostro bel territorio così ben confinato. Vi fanno in vario modo parte scrittori e scrittrici in italiano (antico e moderno) nati qui anche secoli prima che esistesse l’Italia o la libertà di manifestare il pensiero della Costituzione democratica; scrittori nati altrove che hanno scritto qui, in italiano o altrimenti, in tutta o parte della loro vita; scrittori italiani di altra lingua madre, immigrati qui già scrittori o divenuti scrittori in Italia; scrittori nati in Italia e poi emigrati altrove capaci di usare anche altre lingue. Inoltre, abbiamo sempre più compreso l’influenza di altri fattori, per esempi quanto gli scrittori in italiano sono tradotti in altre lingue oppure quanto e come scrittori stranieri narrano i nostri territori ed ecosistemi tenendo conto della multiforme cultura italiana, orale e scritta, visuale non solo paesaggistica. La letteratura è sempre storicamente e linguisticamente determinata, i confini geografici e istituzionali vanno criticamente ponderati.

Ciò vale per quasi tutti gli attuali Stati nazionali del mondo, le biodiversità biologica, culturale e linguistica sono patrimonio mondiale dell’umanità, da conservare e rispettare. Vi sarebbero da fare centinaia di esempi, sapendo che comunque una parte di quella biodiversità è andata estinta, vi sono epoche e popoli di cui è difficile ricostruire globalmente il contributo culturale e letterario. Esprimiamo qui qualche spunto su un caso, prendiamo il Sudafrica, non c’è da conoscere tutto su storia africana moderna e contemporanea, scoperte esplorative e ondate di occupazioni coloniali europee, razzismo e apartheid, geopolitica del Novecento per intuire che la storia della letteratura sudafricana è meticcia, ha molte date di inizio e innumerevoli rami di svolgimento (a prescindere da forme e generi); da circa un trentennio poi le lingue costituzionalmente ufficiali in quell’unico indivisibile Stato nazionale sono undici, la più diffusa (zulu) è parlata come lingua madre da circa il 22,7% della popolazione, la meno da circa il 2,1 (l’afrikaans dal 13,5, l’inglese dal 9,6), lo xhosa (quella di Mandela) dal 16, basta sapere almeno questo!

Ovviamente la lingua parlata, intesa, comunicata, talora anche letta, musicata e scritta da qualche centinaio di migliaia o milioni di sapiens cittadini di uno stesso Stato, accanto a concittadini che hanno altra lingua madre e preferiscono possibilmente altra lingua, dice solo qualcosa sui loro diritti e sulle loro libertà, sui loro redditi e sui loro consumi, certo poco sulle diseguaglianze sociali, sanitarie, formative e scolastiche, residenziali e culturali, professionali e familiari, di genere e di aspettative di vita. Né la geografia e la storia della letteratura sudafricana possono sottovalutare, accanto a contaminazioni e meticciati, i percorsi paralleli e intrecciati di ciascuna comunità linguistica, anche per il merito di ciò che viene letto e scritto.

Il Sudafrica ha più peculiarità di altri paesi, se leggiamo una scrittrice o uno scrittore di quel paese (ve ne sono di famosi e anche di premi Nobel, Nadine Gordimer nel 1991 e John Maxwell Coetzee nel 2003) è bene, comunque, tenere in mente questi spunti di griglia critica (che entrambi hanno narrato meravigliosamente), oltre al contesto di poesie, romanzi, racconti, sceneggiature, drammaturgie, e dei relativi “generi”. Facciamo qui un caso personale, prendiamo un autore di crime novel o del genere giallo noir, “genere” che abbiamo più volte richiamato e “tradotto” come il più efficace a descrivere le complesse società meticce contemporanee, parliamo del grande scrittore contemporaneo sudafricano Deon Meyer (tradotto in 27 lingue di oltre quaranta differenti paesi, molto premiato in Francia, Germania, Svezia, Usa).

Il 3 novembre 2023 è uscito in patria (sua) l’ultimo romanzo di Meyer, Leo, scritto in afrikaans. Altrove e in Italia arriverà nel 2024, tradotto probabilmente dall’inglese, come i precedenti. Deon Meyer (Paarl 1958) è un laureato in storia con master in scrittura creativa; giornalista, copywriter, internet manager, consulente BMW; divenuto scrittore esclusivo e a tempo (lavorativo) pieno dal 2009, dopo aver iniziato a pubblicare fiction già almeno quindici anni prima. I suoi romanzi sono prevalentemente crime e non parlano solo delle comunità di lingua afrikaans (sua lingua madre e lingua della scrittura) o di lingua inglese (sua seconda lingua e lingua di principale lettura, a parte il Sudafrica stesso), parlano di una gran varietà degli incarnati e delle culture presenti nel paese dell’autore, ognuna a suo modo meticcia, in un paese a suo modo tutto meticcio, intrecciati con temi, ecosistemi, gruppi di incarnati e culture di tanti altri paesi del mondo. Vediamo qualche trama.

Il successo mondiale che lo ha portato a dedicarsi solo alla scrittura è Tredici ore, originale 2008, in Italia nel 2010 (trad. Claudia Valeria Letizia). Siamo a Cape Town (nella cui area Meyer vive da tempo). Tutto si svolge dalle 5.36 alle 19.51 di un unico giorno di metà gennaio (estate lì, ricordiamolo). L’ispettore afrikaans di incarnato chiaro Bennie Nikita Griessel ha 44 anni, in polizia da 25, brizzolato e rugoso, capelli folti e ribelli, occhi slavi e luminosi, sposato con Anna (letti, case, pasti separati), due bei figli, Carla a Londra indipendente donna delle pulizie (dopo esser stata rapita e rilasciata sei mesi prima) e Fritz studente all’ultimo anno delle superiori (come lui aspirante bassista blues rock), lui in uscita (in bici) dall’alcolismo (niente più da 156 giorni) e dal tabagismo (solo 3 o 4 sigarette al giorno ormai), scettico e comprensivo. Da qualche tempo gli hanno dato lo strano incarico annuale di mentore, stare vicino a 5 nuovi bravi diversi poliziotti di incarnati vari. Proprio quel dì gli stanno per notificare la promozione a capitano ma se la gode molto tardi. Prima quasi impazzisce.

Rachel Anderson, una bella 20enne turista statunitense bruna, viene inseguita da un branco di giovani su per la rapida salita di Lion’s Head verso Table Mountain, dopo che l’amica biondina Erin è stata sgozzata all’uscita di un pub discoteca. Contemporaneamente, il cadavere del ricchissimo alto forte potente discografico donnaiolo afrikaans Adam Barnard viene trovato dalla domestica nello studio di casa (ucciso altrove da proiettili) accanto alla moglie addormentata ex cantante bionda e sensuale (Xandra), ubriaca cronica. I casi si intrecceranno sul piano investigativo e personale, soprattutto a causa dell’ideale contesto noir: il guazzabuglio di polizie, corpi, criminali organizzati, religioni, lingue, pronunce, musiche, cibi, sessi, percezioni internazionali del pur sempre molto diseguale Sudafrica nero bianco meticcio, raccontato in modo magistrale, visto che non può esistere il “politicamente corretto” in ogni luogo e tempo. Spero vi innamoriate del Sudafrica e della struggente provincia del Capo.

La narrazione (in terza varia, al passato e al presente) consente di introiettare bene che abbiamo tutti qualcosa da imparare dall’apartheid (di brutto), dalla sua fine, dalla ricostruzione e dalla “riconciliazione”, dalle tribù minoritarie, dalla corruzione dei cantieri per i mondiali, dalle creste commerciali, dall’immigrazione clandestina, dal trapianto di organi, dal colorato b/n. Anche dalle nostre parti, ecco la magia nel noir! Una storia incredibile, scadenzata nei minuti, nelle sincronie e diacronie della vita e delle vite. Le pagine chiave sono pura letteratura colta nei momenti di massima suspense, come è stato sperimentato e studiato: il vecchio che prepara lentamente la frittata per la braccata di caccia e suggerisce amabilmente un parallelo inglesi - afrikaner - neri, mentre i cattivi stanno arrivando; la ragazza che racconta il segreto nel primo attimo utile quando non ce n’è bisogno. In questo caso non c’è tempo per ristoranti e cucine: burgers e panini. Molta musica, il mercato degli autori e delle etichette, feelings e filastrocche.

Prima del romanzo appena sommariamente riassunto, Meyer ne aveva complessivamente scritti già ben altri sette, definibili forse come thriller non seriali, solo alcuni dei quali tradotti in italiano; alcuni da Piemme, il secondo, il quarto e il quinto (2000, 2002 e 2006); poi uno da Mondadori, il sesto (2007); infine dal settimo con le romane Edizioni e/o, come tutti i successivi. Per arrivare al protagonista seriale esiste agli atti una lunga gestazione ed evoluzione letterarie. Nei primi romanzi Bennie non è il protagonista (appare solo talora e quasi di soppiatto, incidentalmente nel secondo, Dead Before Dying, “Doppio colpo” o “La lista del Killer”), perlopiù si tratta di pezzi unici senza protagonisti duraturi.

Il quarto per esempio, “Il sapore del sangue” (Orion), è ambientato nel luglio 1999 con un testamento che non si trova nemmeno nove mesi dopo che l’antiquario Ian Smith è stato ucciso (torturato, derubato, freddato) e si rischia di lasciare l’eredità allo Stato invece che alla compagna (da undici anni). Lei si rivolge a un ex poliziotto afrikaner 39enne in disgrazia Zatopek Zet van Heerden, capelli scuri, smilzo e atletico, buon cuoco e amante di Mozart (come l’autore), spesso ubriaco. La narrazione alterna trenta capitoli d’incalzante ricerca in terza ad altrettanti momenti biografici in prima del protagonista, che tratta anche i massacri angolani del 1976 e poi incrocia servizi segreti e Cia. Si parla del Sudafrica del primo “rivoluzionario” decennio del post-apartheid, ci aiuta a capirlo anche se l’autore dice di tutta la propria opera che è solo uno spaccato di fiction: “a small window with a restricted view”.

Il quinto romanzo, “Codice cacciatore “(Proteus), è ambientato nell’autunno 2002 (stagioni invertite nell’altro emisfero) e ha protagonista un gigante di incarnato scuro questa volta, uno Xhosa (come Mandela) originario di Alice (Eastern Cape), reverendo padre e dolce madre abbandonati 17enne per arruolarsi nell’Umkhonto se Sizwe (ala militare dell'ANC, African National Congress), una sorta di agente segreto nella lotta contro l’apartheid. Si chiamava Thobela Mpayipheli (rispettoso guerriero), due metri per oltre cento chili, bello, preciso, metodico e molto intelligente; divenuto Tiny Umzingeli (“Cacciatore”) “venduto” ai paesi dell’est in cambio di armi, esplosivi e addestramento, eliminando poi per conto di Stasi e Kgb 17 spie occidentali. Dopo la caduta del muro il buon Tiny si ritrova disoccupato, girovaga un poco e, infine, torna in Sudafrica, mettendosi al servizio di un trafficante di droga per le riscossioni. Ora da due anni avrebbe smesso con la violenza, lavora in una concessionaria di moto (grande passione anche dell’autore), studia per corrispondenza, vive a Guguletu con Miriam e il suo figlio Pakamile. Ha comprato per loro una casa nel veld (tipico paesaggio rurale sudafricano con vegetazione scarsa e bassa), ma un vecchio amico gli chiede aiuto e non si sottrae, avrà contro anche i servizi segreti.

Il sesto romanzo del 2007 s’intitola Onsigbaar' (“Safari di sangue”, il primo delle Edizioni e/o 2010, traduzione di Claudia Valeria Letizia) ed è ancora ambientato soprattutto al Capo e nel Basso Veld, dicembre 2006 - febbraio 2007. Martin Fitzroy Lemmer ha 41 anni, madre inglese e padre afrikaner (per completare la varietà dei primi protagonisti biodiversi), ariete, pallido magro possente, capelli biondo-rossicci, scolpito, taciturno, né fumo né alcol, niente donne da 10 mesi (dopo Mona), di quelli che hanno troppo vissuto (pessima famiglia, violenze e carcere fra i trascorsi), fa la guardia del corpo in una stupenda agenzia diretta dalla lesbica Jeanette Louw. La bella piccola snella ricca colta ariete 34enne Emma Le Roux si sente minacciata, si rivolge a loro, la capa le dà il meglio, lei gli chiede di partire insieme per il Kruger Park e cercare il fratello Jacobus, scomparso da venti anni, allora 19enne. Partono e trovano di tutto: bracconieri e animalisti, scontri razziali e sociali, un serpente in camera, un dirigente del parco sbranato da leoni, tracce antiche e recenti, forse del fratello.

Questo romanzo è davvero straordinario, ricchissimo di biodiversità ambientali, sociali, culturali, letterarie, alimentari, musicali. La narrazione è in prima persona. La prima parte si chiude con lei in coma dopo un attentato. Nella seconda lui le racconta la vita per farla risvegliare. Nella terza scopre la verità e anche chi e perché è stato ucciso il presidente mozambicano Samora Machel, prima che Mandela fosse liberato e il Sudafrica avesse elezioni free & fair, finalmente, nel 1994. C’eravamo. Poi arriva il 2008, Meyer sta ormai definitivamente maturando di passare alla professione esclusiva di scrittore, arrivano le tredici ore di cui sopra e lentamente s’impone Bennie Griessel come principale protagonista, seriale.

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